Quando nell’illuminismo s’infiltra un romantico: Rousseau
Jean Jacques Rousseau era un tipo originale e anche molto doppio. Era calvinista, educato così nella rigidissima sua Ginevra, ma poi divenne cattolico (e più avanti ancora calvinista). Era democratico, ma ammetteva anche l’aristocrazia e la monarchia e la sua elaborazione diverrà punto di riferimento dei marxisti, ma anche dei regimi assolutisti di destra. Era illuminista e amico degli enciclopedisti, ma polemizzò tutta la vita con Voltaire perché disprezzava la ragione. Visse nel secolo dei lumi, ma venne considerato il primo romantico. Era dotato di sensibilitè (come dicevano i francesi), e la considerava suo costante punto di riferimento più del freddo intelletto, ma si accompagnò con donne sol per farsi mantenere e affidò i suoi cinque figli all’istituto degli orfanelli, pentendosene solo poco prima di morire. Quando si dice che gli artisti devono essere “genio e sregolatezza” si pensa a Rousseau. Che infatti fu musicista, filosofo, letterato, romanziere, ma soprattutto vagabondo. La canzone dei Nomadi è dedicata a lui. Era malvestito e mal rasato come un sessantottino, soffriva anche di prostata fin da giovane e doveva orinare a getto continuo e per questo non s’attentava a conferire coi re, perché un re può perdonare tutto, ma non uno che gli piscia davanti. Difficile immaginare un uomo che abbia girato l’Europa come lui. Da Ginevra, a Torino, a Neuchatel, a Lione, a Parigi, a Ginevra, a Londra, ancora a Parigi, meditando, scrivendo e… orinando. Nacque nella calvinista Ginevra nel 1712, suo padre era orologiaio, ma anche violinista e maestro di danza, mentre sua madre morì quando Jean Jacques venne al mondo. Da bambino venne allevato e istruito da un cultore dell’ortodossia calvinista, ma Jean Jacques non ne poteva più di sculacciate immeritate e fuggì a soli 15 anni, trovando poi asilo in un’altra cittadina presso madame De Warens che divenne la sua “maman” e più tardi anche la sua amante. E siccome lei era cattolica, si fece cattolico anche lui e per essere battezzato “maman” lo inviò a Torino all’Ospizio dei catecumeni. Lì Jean Jacques si fece diverse ragazze piemontesi, tra cui una chiamata madame de Vercelli (che non doveva essere di Novara). Pare che abbia originato un’intera stirpe di piemontesi e coloro che tuttora hanno la erre francese sono tutti suoi discendenti. Da cattolico si sentiva evidentemente più libero di amare non solo Dio. Torna però da maman, che intanto si era fatta anche un altro amante (ma Jean Jacques non era affatto geloso e lei gli lascerà la sua villa e la sua biblioteca) e da lì arrivò a Parigi per incontrare il bel mondo degli enciclopedisti al quale si legò (ma non troppo), a cominciare da Diderot. Scopre le bellezza della musica, collabora cogli enciclopedisti sul tema musicale, inizia a scrivere sul pentagramma, inventa anche nuove soluzioni tecniche e una nuova scrittura, come poi farà Schoenberg con la dodecafonia. Lo pensano matto. Non lo era ancora. Poi si scalda. Il suo cuore era turbolento. Sentiva il romanticismo in gestazione. Che era come una gastrite acuta e permanente. Perfino pericolosa perché poteva anche passare dall’eccesso di urina a qualcos’altro. Abbandonò un amico in crisi epilettica tra la folla senza fare una piega, si finse archimandrita sulla via del Santo Sepolcro, ebbe un’avventura con una signora ricca camuffandosi da giocobita scozzese. E però nel 1745 divenne, mediante l’aiuto di un’altra signora (ma Don Giovanni chi era al cospetto di costui?), segretario dell’ambasciatore francese a Venezia di nome Mantaigu, che lo fece lavorare, ma non lo pagò. Tornò a Parigi e gli diedero ragione, ma non i soldi. Prese con sé Teresa Le Vasseur, cameriera del suo albergo nella capitale francese. Visse con lei il resto della sua vita e fece cinque figli che portò tutti all’ospizio dei trovatelli. Teresa dicono fosse brutta e analfabeta. Ma lui di donne ne aveva anche altre. In giro per l’Europa. E dicono che in Allemagna fossero anche più di 640, caro Leporello. Nel 1750 viene a sapere che l’Accademia di Digione aveva indetto un concorso sul tema delle scienze e delle arti, se esse fossero utili al progresso dell’umanità o meno. Presentò il suo trattato e vinse, dimostrando che l’arte e le scienze erano dannose per l’uomo. Ma allora perché continuava a scrivere? Contraddizioni tipiche del genio. Capì che poteva filosofeggiare e si diede, dopo aver scritto un’opera lirica, al suo Discorso sulle diseguaglianze del 1754, che non vinse alcun premio, ma che lo portò agli onori delle cronache. Vi sosteneva che l’uomo è per sua natura buono e che è reso cattivo dalle istituzioni. E’, la sua, la più netta antitesi della teoria del peccato originale. Agostino d’Ippona si sarà rigirato nella tomba, lui che pensava esattamente il contrario e riteneva i bambini non battezzati (e che non avevano espiato il peccato originale) peccatori infami, meritevoli del fuoco infernale. Per Rousseau la civiltà ideale era quella primitiva. E l’origine delle disuguaglianze andava ricercata proprio nella proprietà privata (è il primo che lo afferma e per questo verrà considerato un precursore di Marx). Rousseau sosteneva che il primo uomo che dopo aver cintato un pezzo di terra disse “questo è mio” fu il vero fondatore della società civile. Basterebbe allora tornare allo stato naturale. Ci pensa su e manda questo saggio a Voltaire. Che gli risponde: “Non fu mai impiegata tanta intelligenza nel definirci tutti stupidi. Viene voglia di camminare sulle quattro zampe”. Che Voltaire non sopportasse Rousseau è provato anche dal fatto che i due si misero a litigare praticamente su tutto, quasi come Fini e Berlusconi. E perfino sui terremoti. Su quello di Lisbona Voltaire volle asserire che si trattava della dimostrazione che la provvidenza non esisteva e Rousseau gli oppose che per lui esisteva solo il diavolo e che era solo colpa di quei modernissimi portoghesi che s’erano messi ad abitare nelle case di sette piani e non nelle foreste. Ci tornassero. Quando fu costretto a tornare a Ginevra e Jean Jacques si riconvertì al calvinismo (era la terza volta), anche Voltaire era andato a vivere a Ginevra, e scrisse commedie che non potevano essere rappresentate. Quando tentò di far ritirare il bando si oppose Rousseau in nome delle vecchia inimicizia. Intanto Jean Jacques aveva abbandonato Parigi e si era rifugiato come un eremita in campagna, passeggiando, meditando e scrivendo. E orinando sempre di più. Nel 1760 appare il suo romanzo “La nouvelle Eloise”, poi “Emile” e infine “Il contratto sociale”. Emile è un trattato sull’educazione, ma il libro che fu oggetto di condanne ufficiali fu il Contratto. Rousseau fu costretto a fuggire dalla Francia, Ginevra non voleva saperne di lui (anche perché dopo essere passato dal calvinismo al cattolicesimo e dal cattolicesimo al calvinismo non sapeva più che religione abbracciare) e visse a Motiers vicino a Neuchatel. Ma gli abitanti lo accusarono addirittura di veneficio, lo credettero una strega e tentarono di ucciderlo tre anni dopo. Fuggì allora in Inghilterra dove Hume aveva deciso di ospitarlo e di mantenerlo. Giorgio III gli assicurò una pensione. Iniziò a soffrire di mania di persecuzione. Vedeva Voltaire dappertutto. E i primitivi che lo inseguivano e Hume che si travestiva da “maman”. Fuggì a Parigi dove morì (e nessuno ha mai capito come). Come Mozart con Salieri? Ma Voltaire, il suo potenziale Salieri, era già morto da due mesi. Rousseau viene ricordato per qualche intuizione sulla teologia e sopratutto per il suo Contratto sociale. Su Dio inventò la nuova ricerca di cui poi si servì la religione protestante. E cioè non più il metodo cosmologico (Dio esiste perché lo penso) e neppure quello cosmogonico (Dio esiste perché dev’esserci un inizio di tutte le cose), ma Dio esiste perché lo temo, perché lo vedo nelle meraviglie della natura, nel suo mistero. Quindi il metodo sentimentale per arrivare a Dio. In fondo Dio esiste perché ne ho bisogno. D’altronde era un romantico, no? Del Contratto si sono avvalsi un po’ tutti, perché Rousseau ti serve un piatto con molti ingredienti diversi. Così chi preferisce il burro esalterà il burro e chi preferisce il pepe il pepe. E chi non ama né l’uno né l’altro esalterà il resto. Tutti, così, si sentono un po’ figli di Rousseau, che ha servito le più inconciliabili ideologie successive. L’uomo è nato libero, ma poi è stato messo in catene. E vivere in comunità significa accettare delle regole e così dopo lo stato di natura sovviene un’epoca in cui gli uomini non possono sentirsi liberi e formano una società. Le regole sono affidate al contratto sociale. Il contratto prevede la totale alienazione di ciascun associato, con tutti i suoi diritti, all’insieme della comunità. Il contratto dà al corpo politico un potere assoluto. Quando il contratto è necessario, cioè quando l’uomo è unito in comunità, la comunità regolata dal contratto rende gli uomini non più indipendenti. Rousseau, a questo punto, potrebbe abbracciare la teoria anarchica, anzi anticiparla. Al bando il contratto e viva la libertà. No. Preferisce imboccare un’altra via, quella che rende possibile l’interpretazione più reazionaria. Perché entra in campo la sua teoria della volontà generale. Naturalmente quando si parla di questo concetto, che è come il bene supremo o l’interesse collettivo, bisogna sempre stabilire chi è che lo decide, lo prescrive e lo controlla. E qui Rousseau è un po’ vago. Dice che la volontà generale non è né la volontà della maggioranza dei cittadini, né la volontà di tutti i cittadini. Allora è la volontà del governo, ma non la somma delle volontà personali dei governanti, anzi è la somma della volontà comune dei governanti, dunque il loro minimo comun denominatore. E chi ha detto che questa sia la volontà generale, signor Rousseau? Se il minimo comun denominatore dei governanti non è il minimo comun denominatore della maggioranza del popolo, che succede? Bisogna interpretarlo il popolo? Ma così si giustificano le peggiori dittature. Tutte sono state edificate nel nome della volontà generale. Dal punto di vista della confisca dei beni il sistema di Rousseau è simile a una sorta di dittatura del proletariato di futura leninistica memoria, dal punto di vista del valore assoluto dei governanti di interpretare la volontà generale è simile alle future dittature fasciste. Chissà perché il vagabondo romantico Jean Jacques è stato da molti ritenuto un filosofo più avanzato dell’illuminista Voltaire che è invece oggi più vivo che mai, col suo concetto di libertà che viene ancor oggi citato ad esempio… Può essere che Rousseau sia andato molto avanti rispetto al secolo dei lumi, con le sue teorie e il suo modo di vedere la vita. Ma può anche essere che abbia acceso fin troppo i lumi e finito per bruciarli.
[…] Tratto dal blog “L’Occhio Del Bue” (LINK) […]
chi ama l’Italia più di un italiano che vive in Svizzera?
Leave your response!
Articoli recenti
Commenti recenti
Slideshow