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L’esistenzialismo tra Sartre la godibile sofferenza

27 Marzo 2012 4.105 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Uomini smilzi, nervosi, impalliditi, avvolti dal fumo d’una sigaretta, sguardi accigliati. E intorno odore aspro di tabacco, facce sofferte alla Umphrey Bogart, libri, opuscoli e giornali sulle ginocchia, assieme a donne bellissime invaghite di tanta cultura e sofferenza. Che sospirano e soffrono piacevolmente con loro. E in sottofondo musica. Magari Casablanca al piano. Perché l’esistenzialismo francese questo è stato soprattutto: il più godibile dei malesseri. Il dolore estetico, che nulla ha a che fare con quello tragico. La sofferenza per una società marcia, per un mondo da cambiare e che doveva crollare da un momento all’altro, il dolore per un’identità non compresa, che provocava per questo un piacere immenso. Il solipsismo intellettuale. Io ho ragione e il mondo ha torto, questa la filosofia di fondo. E dibattiti e scontri verbali, e occupazioni letterarie e letture sempre in moderni caffè avvolti da profumi di wisky e da fiumi di champagne nel centro di Parigi, con orchestrine jazz e ballerine disponibili e attrici che li frequentavano come oggi si frequentano i salotti di “Porta a Porta”. Riservati a pochi eletti. Gli esistenzialisti, questi fortunati e meravigliosi accattoni, questi splendidi esemplari del nuovo messaggio filosofico che segnò gran parte del novecento. Questi profittatori del male del mondo per il bene loro. Non è che non fossero sinceri. Avevano fatto una scelta. Se Kierkegaard, che era il loro punto di riferimento, aveva pronosticato l’angoscia collettiva a fronte delle scelte che la vita proponeva, loro l’angoscia l’avevano fatta diventare una bandiera, una benedizione, un simbolo, un’identità e chi non aveva l’angoscia era considerato non già semplicemente un uomo senza angoscia, ma un uomo superficiale, senza profondità, senza sostanza. E le donne lo scansavano. Non hai l’angoscia e allora come posso uscire con te. I non angosciati soffrivano moltissimo per questa loro condizione di inferiorità e pregavano per poterla conquistare come gli stoici anelavano l’apatia e gli epicurei l’atarassia. Tra musiche ovattate e cantate alla maniera di Edith Piaf, mentre le nuova pittura informale si era ormai consolidata e sotto la Torre Eifel se la spassavano Picasso e Salvador Alì, si formavano Merleu Ponty, Levi Strauss, Raymond Aron, Paul Nizan e tutti si scoprivano un po’ esistenzialisti. E una ragazza che divenne la donna di Sartre per tutta la vita, Simon de Beauvoir, fu rapita da Sartre. che quando parlava procurava l’orgasmo. La conquistò con pochi congiuntivi. Quando i due si conobbero e si chiesero i nomi dovette nascere però un bel problema. Lui si chiamava infatti Jean Paul Charles Aymard e lei addirittura Simone, Lucie, Ernestine, Marie Bertrand. Quando decisero di vivere insieme potevano tranquillamente pensare di tradirsi senza farlo, tanto erano pluri-identificabili. La de Beauvoir era donna dell’alta borghesia parigina, ma a causa di un fallimento fu costretta a vivere l’adolescenza in povertà. Ma studiò e all’università incontrò Jean Paul (era di tre anni più giovane di lui, Sartre del 1905, lei del 1908). Fu un colpo di fulmine. Scrittrice, saggista, filosofa, femminista lei, scrittore, filosofo, saggista, esistenzialista lui. Un sacco di cose insieme. L’attività di Sartre segue le vicende del novecento. Nel 1933 è a Berlino ove si specializza dopo la laurea ottenuta a Parigi e qui avverte a fondo l’influenza di Husserl e di Heidegger. Ma avverte anche il dramma del primo nazismo e viene catturato, poi liberato. In questo periodo che precede l’esplosione del secondo conflitto mondiale Sartre si dedica alla filosofia e alla narrazione, intrecciandole insieme. In fondo il suo romanzo più celebre “La nausea”, pubblicata nel 1938, che precede d’un anno “Il muro”, altro non è che l’espressione del suo modo di intendere la vita. Che è priva di senso, è odiosa. La sua visione della vita provoca disgusto, disperazione. In fondo l’uomo deve costruire egli stesso la sua esistenza, un’esistenza che precede e non segue l’essenza dell’essere umano. Il contrario di quel che sosteneva Heiddeger che dava privilegio all’essere universale e non all’ente-uomo. Cioè l’uomo sartriano è quello che si staglia nella vita a contatto cogli altri uomini. Esistere è vivere nel mondo. E’ l’essere sociale che cerca la sua libertà e siccome per lui Dio non esiste, l’uomo cerca di diventare esso stesso dio. Ma l’uomo-dio è in preda alla più cocente delle delusioni e delle frustrazioni. Perché non ce la fa. E resta un dio fallito. Lo scrive e lo ripete nel suo libro “L’essere e il niente”. Poi la guerra, l’occupazione tedesca della Francia, la resistenza francese alla quale Sartre partecipa. E il suo modello di uomo che si porta le sue disperazioni e le sue angosce si ricicla nel militante democratico e nazionale. Subisce il fascino del marxismo e del comunismo, ma nell’immediato dopoguerra è ancora soltanto un esistenzialista democratico, umanista se si vuole. Fatto sta che fonda il suo giornale “Le Temps modernes” che diverrà punto di raccolta degli intellettuali francesi di sinistra. Poi nell’ottobre del 1945 tiene una conferenza a Saint Germain des Près alla quale accorre tanta agente che finisce in rissa, con svenimenti e arresti. Neanche si fosse trattato del generale Eisenhower. Il dio Sartre non si sentiva per nulla fallito. La sua idea di libertà e di esistenzialismo umanista era sul tappeto. Lo osservavano inaciditi da destra e anche da sinistra. Si sentiva scomodo, ma influente. In molti diffidavano di quel salottismo all’alcool, che farà affermare a Celine “Sartre è un rivoluzionario alla birra” . Più della birra (che aveva cominciato a bere a Berlino) Sartre amava il wisky e le donne, amava la musica e la poesia, e Albert Camus che gli era amico e confidente si distaccherà da lui solo quando Sartre (all’inizio della guerra fredda e del conflitto di Corea del 1950) si avvicinò al Partito comunista francese e al mito dell’Urss. Sarà comunista e filosovietico fino al 1956, fino al dramma dell’Ungheria. Non smise certo di pensare, di scrivere e di agire. Si considerava antiamericano, anticapitalista, anticolonialista. E combattè per l’indipendenza dell’Algeria. De Gaulle, quando in molti lo volevano arrestare, se ne uscì con la frase ad effetto “Non si arresta Voltaire”. Frase da scolpire sul marmo. A meno che De Gaulle non avesse confuso davvero Sartre col filosofo illuminista. Era un generale, non un intellettuale. Si sa invece che Mitterand non lo considererà affatto. E che Castro da lui fu amato e poi ripudiato. Si ficcò in testa (impresa da ridere) di scrivere un trattato per conciliare la teoria economica e sociale del comunismo con la libertà, senza scadere nel revisionismo socialdemocratico. Era demodé. Dovette anche sorbirsi il difficile urto dei nuovi strutturalisti (pensavano che la libertà fosse vana e la struttura tutto) e avevano nomi altisonanti, da Levi Strauss a Foucault a Lacan. Propugnavano il contrario del suo esistenzialismo. Che invece  Sartre cercò di dimostrare anche nel 1960 scrivendo addirittura, per proprio per conciliare esistenzialismo e marxismo, “La critica alla ragion dialettica”. Risalta la sua ambiguità. Anarchico (da giovane insegnante se ne uscì dalla cattedra, si sfilò la cravatta e parlò ai suoi alunni come amico), esistenzialista (rifiutò nel 1945 “La legion d’onore” e nel 1964 addirittura il premio Nobel, così per sentirsi più libero), per anni fu convinto dello stalinismo e del comunismo dell’Urss, considerandolo il paese della libertà. Era orbo? Ma non era certo il solo. Aprì gli occhi solo nel 1956 e dopo li tenne semichiusi. Vedeva tutti gli orrori del capitalismo e odiava l’Ovest. Dicono fosse amico (lo aveva conosciuto all’università a Parigi) di certo giovane studente orientale che poi dominerà la Cambogia alla fine degli anni settanta col nome di Pol Pot. Ma si sa nella vita si cambia. Di lui, forse è la critica più spietata, scrisse Vitaliano Brancati nel 1947: “Ogni giorno in libreria arriva un libro di Sartre. Questo quarantenne ha già scritto migliaia di pagine sul niente, sull’essere, sull’angoscia, sulle camere d’albergo, su Giove, su Elettra e sulle mosche. Niente si salva da questo grafomane, né il teatro, né la letteratura, né l’intimità dei veri poeti”. Eppure Sartre, che era uso chiamar la pizza “crèpe al formaggio e pomodoro” (quel finesse, monsieur) segnò una pagina importante della cultura europea. Anche per l’eccentricità e le palesi contraddizioni che potevano farlo apparire una sorta di D’Annunzio di sinistra? Può darsi. La sua donna, definita “madame la Sartreuse”, Simone de Beauvoir, non era da meno e scrive di se stessa. “Sono una pazza, sono un mezza pazza? Ho abitudini dissolute, una comunista raccontava nel 1945 che a Rouen da giovane, mi aveva visto ballare nuda su delle botti. Ho praticato con assiduità tutti i vizi, la mia vita è un autentico carnevale”. Dal canto suo Sartre, per non esserle da meno, le scrive: “Ti amo e sono poligamo”. Che in sé non è neppure una contraddizione. Il tempo dell’alcool a fiotti, delle droghe sempre più massicce, delle delusioni, il tempo d’un maggio francese del 68 al quale figurarsi se Sartre poteva sentirsi estraneo. Il tempo di De Gaulle, poi di Pompidou. Il sartrismo ispirò suicidi, come l’esistenzialismo e lo stesso Keirkegaard. Possono essere ricondotti a questa filosofia certo le morti di Camus, Pavese e Luigi Tenco che tanto influenzarono la mia generazione. Il suicidio estetico. La scelta della morte come l’apoteosi della libertà e l’affermazione più piena della identità. Sartre morì d’altro nel 1980. Il medico scrisse: “Tropo fumo, troppo alcool, troppe droghe”. Forse anche: “Troppi libri, troppe idee, troppa vita”. Anche in questo una versione contraddittoria. E dunque  un po ‘ sartreuse…

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