Che cosa resta (testamento politico prima della morte dell’Italia)…
Mercoledì di riflessione, di direzione, di decisione. Riti triti, già vissuti, come se il mondo si fosse fermato. Il segretario è pur sempre il segretario e se fino alle 15 del 25 febbraio era il presidente del Consiglio perché le aveva indovinate tutte (doveva solo sciogliere il nodo di Errani, presidente di regione e candidato ministro), alle 15 e 05 non poteva diventare il vinto perché tutte le aveva sbagliate. Dunque tempo al tempo. Per cambiare i convincimenti non basta che sia cambiata la realtà. Serve ancora una settimana, forse più. Bersani chieda pure un incarico pieno o esplorativo e si faccia mettere sotto da Grillo. Francamente non capisco la soddisfazione. Ma ci sta. Ho l’impressione che il Pd sia come un pugile suonato che ha perso lucidità e continua a tirare pugni al vento. A sentire certa Puppato in tivù mi è venuta in mente la ragione fondamentale della crisi di questo partito che non riesce a vincere nemmeno quando ha già vinto, vedasi il 2006 e ancor più il 2013. Gli manca il senso della realtà. O meglio elabora una realtà che non esiste. Prendiamo il rapporto con Grillo. Nemico numero uno fino alle 15 e 05 del 25 febbraio, adesso diventa l’unico alleato possibile, anzi un alleato col quale esiste piena convergenza di programmi. Ma come? Ma se fino a ieri era il pericoloso populista, un rischio per la nostra democrazia? E poi l’elaborazione del lutto. Non c’è niente da fare. Non servono i niet, gli insulti, le prese per i fondelli, non servono i chiarissimi propositi di Grilleggio (riduzione a uno dei nomi dei due soli esseri riconoscibili del movimento) che il “Pd meno elle” lo vuole addirittura distruggere, proposito che neppure Mussolini aveva così chiaramente manifestato verso i partiti nel 1922. Non servono a niente. Si continua a far finta di credere. Il Pd sembra quell’innamorato che non smette di far dichiarazioni d’amore all’amata che lo respinge. E che pensa di prenderla per sfinimento. Gli deve dire di no in faccia e glielo deve dire in un determinato posto, e con determinate parole e via pretendendo senza mai prendere atto del rifiuto. Come se tre fossero meno umilianti di uno solo. Si dice che questo atteggiamento del Pd sia obbligato, perché il suo elettorato non sopporterebbe un endorsement con Berlusconi e perché Grillo deve dire di no in Parlamento. Quest’ultima cosa non credo possa avvenire perché il presidente della Repubblica non può dare un mandato pieno a chi non è in grado di costruire una maggioranza. Si precisa che un accordo con Berlusconi farebbe volare i Cinque stelle al 30 e più per cento. Obietto che un accordo con Grillo forse li farebbe volare anche più su, e anche questo corteggiamento di stampo catulliano, “Nec tecum nec sine te vivere possum”, li sta già facendo ulteriormente lievitare. Il problema non è l’effetto negativo dell’accordo tra Pd e Pdl, ma semmai l’effetto negativo di un accordo negativo tra Pd e Pdl. Perché, intendiamoci, se si potesse fare un governo costituente, anche con nomi relativamente nuovi, che ritenga urgente la riforma elettorale e costituzionale, la diminuzione della spesa per la politica, l’abolizione dell’Imu sulla prima casa, la completa detassazione delle nuove assunzioni, la riforma del patto di stabilità, la ricontrattazione di alcuni parametri con l’Europa stile Hollande, la riforma del patto di stabilità e durasse due anni, non credo che sarebbe un male per il Paese né che Grillo se ne avvantaggerebbe. Anzi. Dipende certo dalla disponibilità del Pd, ma dipende anche dalla volontà del Pdl di sacrificare Berlusconi e le sue leggi ad personam e una classe dirigente che ha fallito. Difficile. Molto, ma altro non c’è, se non il rischio di nuove elezioni con la vecchia legge. Forse il rischio peggiore. Non era successo così anche a Weimar?
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