Ciao Sergio, mio grande maestro
Sergio Masini era il migliore amico di mio padre Stefano. E’ stato mio maestro di vita. Ha attraversato l’intera mia esistenza dalla mia nascita alla sua morte. Appassionatamente vivendola come un uomo goloso di sentimenti e di umanità. Difficile aver conosciuto Sergio senza essersene innamorati. Dotato d’intuito e di preparazione letteraria e filosofica, era un uomo di profonda cultura, che abbinava sempre a popolare ironia. Non un intellettuale come noi siamo soliti riconoscere. Generalmente lontani dallo spirito delle gente comune. Molto di più. Un uomo di cultura che sapeva comunicare e farsi capire sempre trasformando concetti difficili in frasi semplici e ad effetto, a volte condite col nostro dialetto. Così quasi per pudore, per dimostrarsi piu umileDi lui, socialista cresciuto col culto di Camillo Prampolini, ma anche professore e direttore didattico, voglio soprattuto ricordare la figura del giornalista. Mi ha insegnato a scrivere. Più di cento insegnanti. Mi accomandava il ritmo. Chè scrivere è come musicare. Con pause e una misura. Un quattro quarti e un tre quarti in chiave di violino. Poi gli aggettivi, quell’aggettivare sempre di cui oggi si è perso l’uso. E la punteggiatura col punto che sovrastava le virgole. Ogni suo articolo (era stato giovane corrispondente de “Il Progresso d’Italia” nel primo dopoguerra e poi direttore de “Il Socialista” e de “La Giustizia”) era un piccolo capolavoro, che dovevi leggere e rileggere e citare a memoria. Come quando si firmava Matteo da Reggio e prendeva in giro il mondo. Sapeva trasmetterti la sua vèrve. Come quando parlava roteando gli occhi in senso di stupore o di ammirazione o di sconcerto. Come quando scriveva con un procedere a tempo. Nessuno più di lui avrebbe potuto fare di più. Il Psi gli propose di tutto, dalla presidenza della Provincia, a quella di qualsiasi ente e candidature varie. Rifiutò perché, diceva, “voglio essere padrone della mia vita”. Accettò solo la presidenza del San Lazzaro. I matti lo incuriosivano. Lo appassionavano, come i libri di letteratura, le poesie che scriveva e che ha pubblicato. Stupende. D’amore. Per donne che adorava e città e portichetti e sentimenti tagliati a pezzettini. Lo sentivo spesso per raccogliere un giudizio, un consiglio, un’esortazione. Era come un libro da consultare a capitoli. Per la storia del partito, di cui custodiva foto e documenti, per l’indagine letteraria e filosofica, che conosceva come pochi. Anche per la vita comune. Forse l’avevo intravisto per la prima volta quando in via Baruffo dove abitavo si riunì con Felisetti e Galaverni e altri per fondare la corrente autonomista dopo l’ottobre ungherese del 1956. Nenniano e autonomista, amava la libertà. Come avrebbe potuto non difendere quella degli ungheresi dai carri armati sovietici? Voleva l’unificazione tra Nenni e Saragat, si sentì orfano dopo la scissione del 1969. Apprezzò Craxi e il suo decisionismo. Partecipò a tutte le riunioni di rinascita socialista andate a finir male. Volò alto e volle dare il suo contributo ai gruppi d’avanguardia letteraria come il Gruppo 63 che a Reggio si formò l’anno dopo anche grazie a lui e a Corrado Costa. Con la rivista coi buchi Malebolge, che mio padre teneva nella credenza. Nel contempo seppe anche volare basso. Non è da tutti. Finì consigliere e anche presidente della circoscrizione del centro storico, per parlare di cose concrete. Di tutti giorni. Fu ai Teatri, vice presidente per un breve periodo. Più della tradizione amava la novità. Era curioso e legato all’idea della trasformazione. Se n’è andato di prima mattina sulla soglia dei novant’anni, sempre amorevolmente accudito da sua moglie Pina, che aveva sposato in età avanzata dedicandosi interamente a lui, e me l’aveva comunicato per strada ridendo. Col suo solito sorriso col quale sapeva parlarti di Kant e della zia di Reggio. Perché Sergio sapeva abbracciare il mondo. E sollevarlo, anche.
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