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Una barriera ideale e politica?

2 Aprile 2021 369 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo
Quando Nenni si avviò a celebrare l’unificazione con Saragat nel 1966, con dieci anni di ritardo rispetto all’incontro di Pralognan, vanificato da una maggioranza numerica contraria formatasi al Congresso di Venezia del 1957, volle sancire la differenza tra socialisti e comunisti attraverso l’immagine di “una barriera ideale e politica”. Il Pd é altra cosa rispetto al Pci. E’ il risultato delle sue diverse evoluzioni politiche e nominali con l’aggiunta di una forte e ormai prevalente componente cattolica. Da Letta, a Mattarella, a Gentiloni, a Franceschini, non c’é postazione importante che non sia coperta da una presenza cattolica.

Letta, con il pretesto delle donne, ha certo avvertito il peso di uno squilibrio inserendo la Serrachiani al posto di Delrio, mentre la nomina della Malpezzi, laureata alla Cattolica con una tesi su Amintore Fanfani, al posto di Narducci non fa che confermare la regola.  Dunque più che il Pci il nuovo Pd, almeno nel suo attuale gruppo dirigente, ha più somiglianze con la vecchia balena bianca, almeno con quella più spostata a sinistra. Non fa specie dunque che nell’impasto tra ex comunisti ed esponenti della corrente di sinistra della Dc (non tutti, giacché Guerini era forlaniano) non appaia particolarmente visibile una componente socialista (Amato fu tra i fondatori del partito, ma ci sono Pittella, Nannicini) che pure esiste. Naturalmente quello che bisognerebbe capire é il motivo della sovrastante supremazia della componente cattolica, proveniente dalla Marrgherita, rispetto a quella ex comunista, proveniente dai Diesse, che erano tre volte più forte del partito unificato. Dove sono finiti Fassino, D’Alema, Veltroni, Bersani, tanto per fare i nomi del vecchio gruppo dirigente diessino? I due più rappresentativi, D’Alema e Veltroni, sono stati indotti da Renzi, il vero tagliatore di teste ex Pci, a ritirarsi a vita privata. D’Alema, il più combattivo dei due, ha finito per lasciare il Pd. Stessa sorte per Bersani, dopo il mancato successo alle politiche del 2013. Il giaguaro ha finito per smacchiare lui. E non sopportando la leadership di Renzi, anche il piacentino se n’é andato sbattendo la porta. Resta Fassino. Ma la sua presenza é più debole della sua prestanza. Alleato di Franceschini, divenuto suo leader, dopo l’esperienza di sindaco di Torino, pare sia rientrato in Parlamento anche se impercettibilmente. Dunque perché mai, su questo il compagno Livio Valvano ha ragione, dovremmo trattare il Pd come se fosse ancora qualcosa di simile al Pci? La motivazione del passaggio di consegne a me non pare tuttavia casuale. Resta in questo partito, una sorta di compromesso storico bonsai, una sopravvivenza percettibile di fattore ex K. Cioè una discriminazione o peggio ancora un’auto discriminazione frutto dell’antica. Come se una leadership affidata a chi proviene da quel mondo fosse meno credibile e meno potenzialmente vincente di quella affidata a un esponete del mondo cattolico. D’altronde non é un caso che Prodi e non Bersani abbia vinto le elezioni. Non é un caso che il massimo storico di questo partito, il 40% delle elezioni europee, sia stato ottenuto da Renzi e che nel momento più grave della sua crisi tutti abbiano deciso di affidarsi a Letta. Questo impasto tra leadership democristiane e tradizioni comuniste produce però alcuni non digeribili conseguenze per il mondo liberale e socialista. Ad esempio una certa indifferenza sui temi dei diritti, e in particolare sul tema della giustizia, ma anche, occorre su questo fare un’eccezione per Renzi, sui temi della laicità. Il percorso verso i Cinque stelle, di Grillo o di Conte non importa, per questo non appare per nulla accidentato. Provi il Pd a chiedere all’avvocato Conte cosa pensa dell’Anm, del Csm, della lottizzazione delle Procure tra correnti politiche, della magistratura politicizzata che dichiara guerra a Berlusconi ieri e a Renzi oggi. Provi a sondarlo sulla necessità di una riforma organica della giustizia che preveda la separazione delle carriere dei magistrati e provi anche a sostenere che l’abolizione della prescrizione produce imputati a vita. Quando il compagno Enrico Buemi, e io fui trai pochi a sostenerlo, si dissociò dal Pd al Senato sulla decadenza di Berlusconi, nessuno nel Pd lo seguì. Ma questo é semmai il mastice che unisce la base prevalentemente comunista del Pd e il suo vertice prevalentemente cattolico: un certo giustificazionismo verso i propri esponenti e un severo giustizialismo verso gli avversari. Vedasi l’autorizzazione al processo per Salvini. D’altronde già la strategia togliattiana era propensa a sacrificare tutto per l’inclusione dei comunisti nel governo del Paese, programmi, uomini, ideali, e la sua strategia era tutta prona all’incontro coi cattolici e con la Dc, cosi come quella di Berlinguer che la praticò col suo compromesso storico realizzando l’unità nazionale con Andreotti. Che tutto questo si sia oggi concretato all’interno di un partito solo lo trovo logico e coerente. Cosi come trovo logico e coerente che questo partito, con due anime prevalentemente non liberali, possa costruire una prospettiva di unità coi Cinque stelle, sacrificando la migliore storia della sinistra riformista italiana. Ma noi?

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