La sfida di Trump
Il giorno dopo l’America si sveglia trumpiana. Il presidente repubblicano (molto a modo suo) ha battuto piuttosto nettamente la sua rivale democratica. Non é stato un testa a testa, come pronosticavano i sondaggi. Trump, sorretto dal contributo essenziale, sia in termini economici (130 milioni di dollari) sia in termini tecnologici (ha avuto due miliardi di visualizzazioni) di Elon Musk, ha vinto piuttosto nettamente prevalendo in tutti gli stati considerati incerti. Intanto Tesla ha fatto un balzo del 13% in borsa e Musk ha abbondantemente già riparato le spese, ma Trump intende attribuirgli un incarico importante nel futuro governo. Al Senato e alla Camera si profila una prevalenza repubblicana e anche nel numero di governatori eletti. L’America ha scelto Trump nonostante la condanna per i 32 capi d’accusa nel caso della pornostar Stormy Daniels, nonostante i 37 capi di accusa per avere sottratto piani militari, nonostante l’incriminazione per l’assalto a Capitol hill per attentato alla democrazia (78 i capi d’accusa). L’America ha scelto Trump perché la democrazia é in crisi, perché la giustizia é in crisi e anche la coerenza e la logica (che Conte e i Cinque stelle siano stati i primi ad esultare e a congratularsi con lui la dice lunga sul carattere schizofrenico di questo movimento) e che sono soprattutto i temi dell’insoddisfazione popolare e dei ceti medi, della sicurezza, della paura ormai a tenere banco. L’America ha scelto Trump per la seconda volta perché i temi della destra sono divenuti più popolari di quelli della sinistra. Parliamo di immigrazione, di tasse, di dazi, di sviluppo, di sburocratizzazione, di prevalenza, insomma, degli interessi nazionali. Tutto oggi pare mettere in discussione la globalizzazione (dalla nascita e allargamento del Brics alle guerre tra stati) che avrebbe dovuto invece creare una nuova stagione di mondialismo politico. L’Occidente, dall’Europa all’America, sta attraversando una fase di crisi economica (rialzo dell’inflazione e disoccupazione in aumento soprattutto negli Stati uniti, ma anche in Germania e Francia). Trump segnerà una svolta nel rapporto con l’Europa? La politica dei dazi potrebbe mettere in grave difficoltà le esportazioni di un paese come l’Italia in cui esse rappresentano il 40% del Pil. Ora, occorrerebbe più che mai una risposta europea comune, sul piano economico (sulla scia del rapporto Draghi che auspica un muovo eurobond stile recovery), sul piano della politica estera (se Trump manterrà le promesse elettorali, gli impegni finanziari militari americani saranno destinati a diminuire e quelli europei ad aumentare), mentre la sua salvifica missione di pace nelle due principali guerre, quella all’Ucraina e quella in medio oriente, si scontreranno inevitabilmente con le leggi dure della realtà. Lo stesso portavoce del Cremlino, mentre si é augurato che gli Stati uniti contribuiscano a trovare una soluzione al conflitto, ha sottolineato come questo non sarà semplice e non sarà in 24 ore come promesso dal nuovo presidente americano. Non credo proprio che tutte le promesse di Trump saranno mantenute. Ci vorrebbe Diabolik. Mi auguro che nell’ordine 1) L’Europa approfitti della sfida di Trump per compiere un passo in avanti decisivo sulla sua unità, mettendo un numero di telefono in quell’agenda di Kissinger che lo stesso non trovava. Viceversa dialogare paese per paese con Trump equivarrebbe a segnare la fine del sogno di Turati, di De Gasperi, di Altiero Spinelli, di Ernesto Rossi e di Eugenio Colorni. 2) Nelle vesti di pacificatore immediato il presidente americano non si dimentichi i diritti dei popoli all’indipendenza nazionale. Di quello ucraino che combatte contro l’aggressione di Putin, di quello israeliano che combatte contro chi lo vuole estinguere e cacciare, di quello palestinese che giustamente propugna il bisogno di avere una patria 3) Che gli Stati uniti possano ancora sposare le lotte per la libertà. Ad un tempo, certo, non possono essere accusati di intrusione negli affari di mezzo mondo e poi, anche, di occuparsi solo di loro stessi. O di infiltrarsi negli affari del mondo solo in relazione ai loro stessi interessi. No, non é quest’ultima l’immagine dell’America uscita dai due conflitti mondiali del novecento e non é nemmeno quella che mette a fuoco il Vietnam o fugge indecorosamente dall’Afghanistan. 4) Che l’Occidente tutto, soprattutto l’Europa, e in particolare l’Italia, rispondano alla crisi democratica non certo accedendo al nuovo modello di democrazia illiberale decantato da Orban e da Putin e preso a modello da Trump. L’America, patria della moderna democrazia, dispone di tali e tanti contrappesi che una svolta illiberale non é nemmeno pensabile. Ma l’Occidente tutto, a fronte dell’attacco al modello liberaldemocratico, ha non solo il dovere di vantarne la superiorità storica, ma la necessità di dimostrarla nell’attualità, affinché le democrazie non siano di intralcio allo sviluppo e alla modernizzazione. Non serve l’uomo forte, né l’autocrazia o l’autoritarismo, serve la democrazia decidente. Il governo forte. Le riflessioni sul futuro della democrazia siano al centro del pensiero europeo e italiano, affinché una nuova e più solida democrazia sia pronta ad affrontare e vincere le pericolose sfide del presente e del futuro.
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