I salari italiani? Più bassi che nel 1990
Secondo una ricerca di Transform Italia solo nel nostro Paese il salario medio degli italiani é addirittura inferiore a quello del 1990. Hai voglia di rimpiangere la cosiddetta Prima Repubblica e il governo Craxi che tagliò solo tre punti di scala mobile e si ritrovò un pericoloso referendum da affrontare, vincendolo. Hai voglia di sognare un impossibile ritorno all’indietro quando il tasso di sviluppo italiano era superiore alla media di quello europeo. Hai voglia di raffrontare il prestigio e la qualità della vecchia classe dirigente con quella venuta dopo. Ma i dati fanno piangere. Tutti i paesi europei hanno oggi salari maggiori. L’aumento più netto si è registrato nei Paesi dell’Europa centrale e orientale. In Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, ad esempio, il salario medio annuale è raddoppiato. Ma le percentuali più alte si riscontrano nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania), dove tra il 1995 e il 2020 i salari sono più che triplicati. Si tratta di Paesi in cui i salari medi annuali, 30 anni fa, erano molto più bassi rispetto a quelli degli altri Paesi europei. La Lituania, ad esempio, è il Paese europeo che ha registrato il più grande miglioramento. Nel 1995 la retribuzione era pari a poco più di 8mila dollari l’anno. Nel 2020, invece, è salita a circa 32mila. I Paesi dell’Europa meridionale, come Spagna e Portogallo e in misura minore la Grecia, hanno invece registrato degli aumenti più modesti (13,7% per il Portogallo e 6,2% per la Spagna). In Spagna, ad esempio, il salario medio annuale nel 1990 era pari a circa 36mila dollari, mentre nel 2020 è arrivato a 38mila. Una situazione analoga è quella del Portogallo, passato da 25mila dollari di salario medio nel 1995 a poco più di 28mila nel 2020. Un po’ diverso invece il caso della Grecia che, partendo da circa 21mila dollari nel 1995, ha registrato un aumento piuttosto importante fino al 2009 (34mila), per poi calare progressivamente. Questo fenomeno di stagnazione è stato particolarmente evidente in Italia ove il maggiore aumento retributivo si è registrato negli anni tra il 1995 e il 2010, anni in cui si è passati da un salario medio annuale di circa 37mila dollari ad uno di 42mila. Un aumento comunque molto lontano da quello delle altre nazioni europee, se pensiamo che il salario medio irlandese, per esempio, è passato negli stessi anni da circa 31mila a quasi 50mila dollari. Tra il 2012 e il 2019 poi la variazione è stata minima, mentre tra il 2019 e il 2020 c’è stata una diminuzione piuttosto importante, che ha riportato i salari italiani al di sotto dei livelli del 1990. Se all’inizio degli anni ’90 l’Italia era il settimo stato europeo subito dopo la Germania per salari medi annuali, nel 2020 è infatti scesa al tredicesimo posto, sotto a Paesi come Francia, Irlanda, Svezia (che negli anni ’90 avevano salari più bassi) e Spagna. In un articolo di Polito sul Corriere l’autore si chiede oggi perché soltanto ora il sindacato, cosi sensibile a temi come la rappresentanza, la pace, l’ambiente, non si sia accorto di una cosi marcata regressione salariale. Il rapporto mondiale sui salari pubblicato dall’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro) ha certificato una realtà ben nota a milioni di lavoratori italiani: dal 2008 a oggi i salari reali hanno subito una contrazione dell’8,7%, il peggior risultato anche tra paesi del G20. La crescita del 2,3% registrata nel 2024 non è stata sufficiente per compensare le perdite accumulate negli ultimi quindici anni. Le cause di questa situazione sono molteplici, ma principalmente questo calo viene attribuito alla scarsa produttività, a un effetto Covid che c’é stato però in tutti i paesi, e ai governi che si sono succeduti. Sarà ma, come osserva Polito, non é che il modello contrattuale italiano non sia più idoneo? Ogni strumento é utile per l’aumento salariale che significa anche aumento dei consumi e della produzione. Ben venga il salario minimo, ben venga la contrattazione aziendale, più produttività uguale a maggiori salari, ben vengano le maggiori tutele perché cessi il lavoro nero e il doppio o triplo lavoro. E ben venga anche la legge suggerita dalla Cisl e osteggiata invece dalla Cgil, sulla presenza dei lavoratori nei consigli delle aziende. D’altronde quel che si fa in Germania, per ideologico dissenso, in Italia non si può fare secondo i soloni della sinistra classista. Ma attenzione, perché l’Italia é il paese della creatività. Un lavoratore con un basso salario deve tentare di alzare il reddito in qualche modo. Ed essendo lavoratore dipendente e pagando fino all’ultimo centesimo di tasse può farlo con un lavoro in nero. O riusciamo a capire che sindacati, governo, confindustria e altre organizzazioni di categoria devono stipulare un nuovo patto sociale che li unisca per lo sviluppo, l’occupazione soprattutto giovanile, e per l’aumento salariale o é inutile perseguire legalmente i lavoratori che fuoriescono dai binari della legalità. Un conto ben diverso é invece approfittare di un sussidio statale, come il reddito di cittadinanza, e poi fare un lavoro in nero. E’, o sarebbe stata, una vera truffa. I Cinque stelle pensavano col reddito di cittadinanza di abolire la povertà in Italia. La povertà é aumentata leggendo i dati ufficiali Istat, i salari sono addirittura gli unici diminuiti dal 1990 rispetto ai paesi europei e dal 2008 hanno avuto una secca contrazione rispetto a tutti i paesi del G20. Bel risultato. Dov’era la festa? Sul balcone?
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