L’uomo è ciò che mangia: firmato Feuerbach
Uno che afferma: “l’uomo è ciò che mangia”, dev’essere un filosofo di svolta. Non c’era arrivato nessuno, prima. E non era Vissani e neppure il dietologo Pierre Dukan. Che un uomo mangi poco o molto questo influisce certo sulla psiche, sullo spirito, sulla sua indole. Non se ne poteva più di discutere di idee in senso stretto. Con Feuerbach la filosofia arriva alla pancia. E diventa antropologia materialistica. Si trasforma in scienza dell’alimentazione, in espulsione di liquidi e di solidi. E’ un paradosso, ma che l’uomo non sia altro che puro pensiero come lo descrive Hegel e neppure quel povero essere dotato solo di volontà che gli procura depressione, come afferma Schopenauer, o quell’angoscioso individuo tratteggiato da Kierkegaard, lo sostiene lui per primo. Ludwig Feuerbach era di famiglia colta e benestante. Suo padre era professore di diritto all’Università di Jena e Kiel. E aveva messo al mondo sette figli (quattro maschi e tre femmine). Papà desiderava un futuro scientifico e universitario per tutti e invece, dopo aver studiato teologia, il giovane Ludwig si sentì attratto da Hegel e dalle sue lezioni e si iscrisse a filosofia a Berlino. Papà non gradiva (Philosophus purus purus asinus?). Mamma, invece, sì. E le donne, in genere, hanno la meglio in famiglia. “Lascialo fare”, gli diceva lei. “E vedrai che un giorno dirà qualcosa di importante”. Non immaginava che sarebbe passato alla storia per quell’equiparazione antropologico-alimentare. Il giovane Feuerbach, che poi si laureò e insegnò anche filosofia, più prendeva appunti da Hegel e più prendeva le distanze da lui. E quelle distanze rappresentano proprio la svolta impressa dal nostro, che diede molta sostanza a Marx e Engels per il loro materialismo storico. Anzi, molte delle intuizioni del binomio inseparabile (come quello tra Verdi e Piave, tra Illica e Giacosa, tra Battisti e Mogol) sono proprio merito del lavoro di Feuerbach, capostipite di quel che si definisce la sinistra hegeliana, contrapposta alla destra, nel bipolarismo a cui diede vita lo studio del grande pensatore tedesco. Per la destra hegeliana Hegel andava preso alla lettera e il suo sistema era eterno e immutabile (erano conservatori tra i più triti), per la sinistra, che accoglieva l’intuizione della dialettica, cioè la chiave interpretativa dei fenomeni storici, no (questi ultimi erano d’impronta vagamente ulivista e non ancora marxista). Anzi Feuerbach ritiene che un sistema definitivo, eterno, immodificabile rendesse inutili la ricerca e la filosofia successiva. Se Hegel aveva già capito tutto cosa c’era ancora da capire? Anche il sistema di Hegel, per Feuerbach, era datato e andava inserito in un contesto, come del resto sosteneva il filosofo tedesco per tutto quello che non riguardava lui stesso. Possibile che Hegel si ritenga colui che ha scoperto la fine della filosofia? E soprattutto quel sistema, sosteneva Feuerbach, verteva su un concetto astratto di uomo, inteso solo come pensiero. Ma come? L’uomo è psiche e corpo. E’ la sensibilità che dà origine all’esistenza. E l’uomo si definisce in un rapporto tra sensibilità e natura (io vedo la realtà esterna, la sento, mi dà piacere o dolore, come sosteneva Schopenauer). Anzi, l’uomo è condizionato dalla natura, dal mondo esterno. Altro che pensiero che diventa infinito e assoluto. Oddio, forse cosciente anche di questo, Feuerbach volle sposarsi (anche per mangiare meglio) con una ricca imprenditrice, comproprietaria di una fabbrica di porcellane. Chissà, forse condizionato dalla sua situazione patrimoniale, tra le sue tante intuizioni non abbracciò quella della lotta di classe. Nel momento in cui s’innamorò ed ebbe una storia con certa Johanna Kapp, figlia del suo amico filosofo Chistian (che non la prese con filosofia), ebbe anche questa tentazione, assieme a quella di lasciare la moglie Bertha, ma poi si riconciliò con la fabbrica e solo dopo il fallimento della produzione delle porcellane, per via delle felici intuizioni degli abitanti del comprensorio di Sassuolo-Scandiano che certo di tutto capiscono tranne che di filosofia, ebbe forse l’idea di diventare marxista. Quando morì, nel 1872, Marx ed Engels avevano già scritto il manifesto del 1848, anno nel quale anche Feuerbach fu coinvolto aderendo alle tendenze democratiche e partecipando come osservatore al congresso di Francoforte. Venne anche invitato dagli studenti liberali all’Università di Heidelberg come vate del nuovo umanesimo. Tenne lezioni dal Municipio perché l’università gli aveva negato gli spazi. Nel 1864 si era costituita a Londra la prima Internazionale e vi aderirono Marx, che l’aveva ispirata e promossa, e anche Mazzini, esule nella città inglese (ma non Bakunin). Feuerbach non si ha notizia di cosa pensasse. Anche perché negli ultimi anni della sua vita era stato colpito da un doppio ictus che lo portò lentamente a morte. Di Feuerbach non si può dimenticare la critica alla religione, considerata come alienazione. E l’uomo che immagina Dio perché, non riuscendo a soddisfare tutti i suoi bisogni, avverte l’esigenza di un essere superiore e perfetto, capace di soddisfarli. E scrive “Quali sono i desideri degli uomini tali sono le loro divinità”. Dio è il fuori di sé, generato dall’uomo, è il soggetto che diventa oggetto. E per lui “è l’uomo che crea Dio e non Dio che crea l’uomo”. Anche se riconosce al cristianesimo una sostanza buona e giusta, Feuerbach ritiene che l’aspetto negativo delle religioni è il fatto che esse portano al sacrificio, alla rinuncia, alla fuga dal mondo. E’invece nel mondo che l’uomo vive e qui egli deve albergare. Di questo la filosofia si deve occupare. Dunque la filosofia fugga “via dal regno delle anime morte”. Feuerbach compie una vera e propria rivoluzione. Con lui la filosofia diventa antropologia, sensibilità, materialità. Basta privilegiare il pensiero, che è solo un predicato dell’uomo, basta discettare su spiriti immateriali e idee astratte. Parliamo di cose concrete. Dell’uomo come essere vivente in questo mondo, qui e ora. Se no ci convinciamo che è vero quel che pensiamo e non quel che è reale. Aveva scandito per primo lo slogan che poi sarà fatto proprio dai dimostranti del sessantotto a proposito dei fascisti: “Ci piace di più Hegèl a testa in giù”. Visto come un eretico, un maniaco, uno che aveva osato non solo contestare il sommo filosofo tedesco, ma addirittura capovolgerlo, forse avrebbe in altra epoca anche meritato di finire lui stesso a testa in giù. Per fargli vedere le cose dal verso giusto. Naturalmente rischiando di rigettare tutto quel che, da uomo vero, aveva mangiato prima…
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