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Che meraviglia il Macbeth

2 Marzo 2013 1.745 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Quei tre meravigliosi cori del Macbeth ne tratteggiano la cifra musicale e drammatica. Lo sgomento, la paura, la preghiera, dopo la morte di re Duncano alla fine del primo atto, la desolazione, la disperazione, il lamento del popolo e della sua “patria oppressa” all’inizio del terzo, l’inno di vittoria, di speranza, anche di ironico disprezzo del finale, “Dov’è l’usurpator”, sono tratteggiati da Bob Wilson e da Roberto Abbado con inusitata meticolosità. Quel finale di primo atto è una della pagine più esaltanti dell’epopea verdiana, che l’autore sa presentarci addirittura durante gli anni di galera, siamo nel 1847, alla prese per la prima volta col suo autore preferito, William Shakespeare. Il coro ti assorbe con una forza interpretativa e una capacità di trasformare l’introspezione psicologica in musica, silenzi, parole, cantate anche senza orchestra, sottolineate e commentate solo da una cassa, poi allargate e sfociate in una ripresa musicale che pian piano trascende e si infiamma col contributo di tutti gli interpreti, e si contorna del finto e calcolato dolore dei due protagonisti. Wilson gioca coi gesti, coi segni, con le luci e i colori, che s’inseguono, si offuscano, s’infiammano. E diventano cupi, quasi a disegnare un popolo da terzo stato di stile impressionistico nel coro successivo, con ombre che impediscono di vedere le espressioni dei volti, intuiti e dipinti attraverso il contesto. Un popolo scozzese concepito come soggetto indifferenziato, come le streghe senza barbe e stregonerie, che ostentano solo un luminoso leggio che serve per decifrare il futuro. E intorno, quasi a corredo, personaggi che si muovono come burattini, che non muoiono e non uccidono, ma svaniscono dalla scena o si bloccano, appunto, come burattini senza fili. Come Banco, come Macbeth. Più dei volti quel che interessa a Bob Wilson sono i gesti. Come nel teatro kabuki, come nella sua Butterflay, dove però i giapponesismi erano quasi d’obbligo. Qui è più difficile giustificarli sempre, pensare che la disperazione di Macduff, si possa esprimere con le mani. Una disperazione di un uomo a cui erano stati uccisi barbaramente i figli e la moglie. Troppo tragico il dolore per non sottolinearlo anche con il più europeo grido degli occhi, del volto. Del cuore. Sì, poco cuore, si potrebbe obiettare, nella regia di Wilson, tutta computerizzata, stilizzata, rigidissima. Però ugualmente di livello, di stile eccelso. Che ti prende, ti trascina, ti convince. C’era anche lui, Bob, accolto da un boato del pubblico. Come un maestro che ti ha saputo rivelare la sua versione dell’opera, dopo i fasti bolognesi. Bene, benissimo il coro. Autentico protagonista della magnifica opera di Verdi. Bene l’orchestra e se proprio si vuole pungere si potrebbe sottolineare qualche distonia tra i due nel corso del primo atto. La protagonista Jennifer Larmore interpreta con drammatica energia il personaggio di Lady, una sorta di matrigna di Biancaneve o Crudelia Demon, e questo non stona, anche se le manca la forza vocale di una Verrett, e anche la potenza di una Dimitrova. Meglio ne “La luce langue”, che Verdi volle aggiungere più tardi, come un melanconico richiamo a una musica meno d’impeto, un segnale del suo rinnovamento musicale, che non nel doppio brindisi del second’atto. D’altronde Jennifer viene da un altro repertorio, da Handel, da Rossini, e si cimenta a 55 anni con uno dei ruoli più ardui del repertorio lirico. Molto bene il Macbeth del giovane Dario Solari, un baritono che non avverte difficoltà a misurarsi con le note più alte ed impervie che richiede il personaggio e che interpreta con efficacia la parte di un Macbeth completamente consegnato nelle mani del destino e della moglie e forse solo leggermente sfilacciato, perchè affaticato, nel finale. Ottima la prova di Riccardo Zanellato, un basso coi fiocchi nella parte di Banco. Molto bravo il Macduff di Roberto Decaro. Finalmente un’opera al Municipale Valli, dopo il pessimo Barbiere. Unica stonatura un teatro tutt’altro che esaurito. Da non credere. Arriva un’opera di Verdi con simile cast e regia, che tanto credito aveva saputo suscitare in tutti i più famosi critici musicali, il più entusiasta il commento di Paolo Isotta, e a Reggio si presenta un teatro con palchi vuoti per metà? Che significato assume questa risposta? Che a Reggio si sia smarrita la passione per la musica lirica? Ne parli, il direttore Roberto Abbado, ne parli in famiglia, se può.

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