La finanza, il socialismo, la democrazia
Le banche, o sarebbe meglio dire la gestione spericolata della finanza, hanno oggi rimodulato la divisione più o meno tradizionale delle classi. Gia con la terziarizzazione, cioè col contrario di quel che prevedeva il vecchio dottrinarismo marxista, erano cadute le previsioni del filosofo di Treviri. Si potrebbe aggiungere che oggi proprio la globalizzazione unita alla finanziarizzazione dell’economia hanno prodotto in Occidente, e soprattutto in Europa, e ancor di più in Italia, una discesa verso il basso del ceto medio, vicino proprio all’idea della sua proletarizzazione.
Ma é il concetto di contrapposizione e di inconciliabilità degli interessi che é saltato. Il potere non é un palazzo da conquistare. E’ una ragnatela in cui quello politico non é il ragno. E neppure quello economico, del quale i governi non sono la sovrastruttura. Il potere della finanza é invisibile, disarticolato, segmentato, subdolo. Si accresce a volte mediante la spregiudicatezza, a volte sulla base di una sensazione o di una previsione azzeccata. Fa vittime interclassiste, suicidi uniti nella lotta, e nell’angoscia. Ha il popolo dall’altra parte. Quello degli imprenditori, degli artigiani, dei commercianti, dei dipendenti, dei pensionati. Altro che contrapposizione tra capitale e lavoro.
La vera contrapposizione dei giorni nostri pare quella tra potere finanziario e popolo. La finanza, che non é la banca, della quale semmai la finanza si serve, si mostra come il moderno palazzo d’inverno. Ma non é neutrale, non é il mostro. Siamo noi che lasciandole piena libertà di manovra la rendiamo tale. Se gli stati decidessero una buona volta di intervenire, se l’Europa si accorgesse della necessità degli eurobond, se l’Italia dividesse banche tradizionali e banche d’affari, che usano il denaro dei risparmiatori per comprare derivati, debiti esteri, per entrare in affari rischiosi, se, insomma, la politica tornasse in campo perché non c’è nulla di immodificabile, forse la realtà potrebbe cambiare.
Mi pare che una nuova idea di socialismo sia oggi quanto mai utile, necessaria, imprescindibile. Il socialismo dell’equità e non della contrapposizione tra le classi, quello che si oppone ai poteri assoluti, alla rendita degli egoismi, alla supremazia delle posizioni inutili allo sviluppo e alla diffusione della ricchezza. Servono nuove ambizioni, nuove analisi e programmi. Tutto ciò che sa di deja vu, di vecchio e consunto, é meglio lasciarlo da parte e deporlo in soffitta. Serve una corale solidarietà, il concetto originario del socialismo coniugato col nostro mondo. Anche per questo la nuova configurazione del socialismo va rapportata anche, e soprattutto, alla sua capacità di salvare le vittime della finanza. Di sorreggerle, di affiancarle. Di rendere vita dura agli sfruttatori del duemila, che non sono più gli imprenditori, ma il mondo invisibile che li opprime, che ci opprime. Un mondo che non riusciamo, o forse non vogliamo, controllare.
Si dirà che la moderna economia é affidata a uno schema liberista, interpretato dalle borse e da un mercato globale governato da cartelli ignoti, da segnali impercettibili. La nostra ansia deriva dall’incapacità di capire, di interpretare, di inserire in questo mondo un progetto, una correzione. Se questa nuova dimensione della finanza globale é inafferrabile, a cosa serve la politica? Se dobbiamo rassegnarci e alzare le braccia, arrenderci dunque, perché affannarci, perché impegnarci, perché combatterci e contrapporci? E’ come un inutile gioco, il nostro, mentre altrove si fa sul serio. Il rischio é la fine della democrazia, cioé del potere del popolo. Così se un moderno socialismo può ancora essere utile per correggere le ingiustizie, la cultura democratica, quella che rimette al primo posto il potere dei popoli, é oggi per taluni versi rivoluzionaria.
Non credo che il mondo in cui viviamo sia immodificabile. E che al primo posto ci sia inevitabilmente un potere invisibile. Credo che non si possa bloccare la globalizzazione, che pure ha generato il progresso di intere popolazioni condannate alla miseria (il socialismo é un’etica internazionale), né che il ritorno all’autarchia e ai nazionalismi siano la ricetta da sposare. Penso che l’Europa non sia l’utopia trasformata in inesorabile incubo. Sarebbe però il momento, come sottolinea oggi Claudio Martelli ricordando le perplessità di Craxi sugli accordi di Maastricht, che nel nostro continente si ponesse davvero l’accento sulla creazione dell’Europa politica. Se non sarà democratica, l’Europa non sarà e forse é bene che non sia. Sarà travolta dai populismi a causa degli effetti negativi che sta generando la sua dimensione unicamente monetaria. La crescita dell’Italia è il fanalino di coda. Nella crisi generale c’é un caso italiano. Siamo alla metà dello sviluppo europeo, dietro anche la Spagna e la Grecia. Non é il caso di cambiare marcia? O si attendono nuovi salvatori della patria?
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