La relazione di Del Bue al convegno su Craxi
Della lettera che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato ieri ad Anna Craxi voglio sottolineare tre passaggi. Il primo riguarda gli apprezzamenti rivolti a Bettino Craxi come leader politico e come presidente del Consiglio, il secondo riguarda l’affermazione sul “brusco spostamento degli equilibri nel rapporto tra politica e giustizia” e il terzo concerne il richiamo alla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo che ritenne con decisione del 2002 che fosse stato violato il diritto a un processo equo per uno egli aspetti indicati dalla Convenzione europea. Grazie presidente Napolitano, grazie a nome di tutti i socialisti, grazie per avere riconsegnato Craxi alla storia d’Italia Dieci anni fa moriva ad Hammamet, lontano dal suo paese, Bettino Craxi, a poche settimane di distanza da un’operazione chirurgica complicata che l’Italia gli aveva negato di effettuare in patria e che gli era stata praticata in un ospedale militare di Tunisi. Era stato condannato per finanziamento illecito e reati connessi dai tribunali del suo paese, aveva scelto di sottrarsi al carcere e di rifugiarsi in Tunisia, ospite dal presidente Ben Alì, suo amico, e protetto da Jasser Arafat, presidente dell’Olp palestinese. In molti allora appresero la notizia con commozione, ma in pochi, solo un manipolo di reduci socialisti e qualche amico disperso nel panorama dei partiti di allora, lo piansero come leader politico. Esplose però subito una contraddizione. Il governo italiano di allora, quello dell’Ulivo, offrì i funerali di Stato, poi respinti dalla famiglia. I funerali di Stato a un latitante? La contraddizione finirà pian piano per esplodere e, sia pure in parte, per essere interpretata, se non risolta. Essa per la verità faceva da contrappeso a una contraddizione di segno opposto che s’era manifestata già agli inizi del 1994. Nel 1994, quando Craxi scelse la Tunisia, Berlusconi vinse le elezioni politiche e si insediò alla guida del Paese. Paese ben strano l’Italia che costringeva, in nome della questione morale e della lotta alla corruzione, Craxi a scegliere tra la casa di Hammamet e il carcere di Regina Coeli, mentre Berlusconi, che di Craxi era stato amico, sostenitore e anche beneficiario, s’insediava, con un consenso popolare superiore a qualsiasi previsione, a Palazzo Chigi. Paese strano, l’Italia di allora, col culto del “nuovo che avanza” e con i professionisti della politica da deporre in soffitta. Paese alle prese con una forte distorsione dei giudizi, che la sinistra aveva inopinatamente cavalcato e che aveva finito per favorire Berlusconi. Riuscire ad un tempo ad apparire, infatti, il vecchio che resiste e per di più a far crescere tra una parte di elettorato la paura del comunismo senza che il comunismo ci fosse più, travestito, come apparve, nelle forme del giustizialismo, fu davvero un errore clamoroso della invincibile e gioiosa macchina da guerra occhettiana. Non sfuggirò alla questione giudiziaria, visto che su questa alcuni esponenti politici anche a Reggio hanno costruito una sorta di non possumus, un ostracismo insuperabile, una barriera che dovrebbe dividere per sempre il condannato Craxi dalla dimensione della politica. Mi diffonderò su di essa più oltre. In quegli anni non c’era solo Craxi ad Hammamet e non c’erano solo dirigenti socialisti, spesso ingiustamente, sottoposti alla gogna mediatica delle indagini giudiziarie. Il caso più recente di Ottaviano Del Turco, peraltro iscritto al Pd, ma di tradizione socialista, prima coperto di infamanti accuse che paiono oggi improvvisamente ribaltate, grida vendetta. C’era nel 1992-94 un popolo di militanti socialisti per bene in preda alla disperazione. Dalla suggestione dell’onda lunga s’era d’improvviso passati a un’onda oceanica che aveva travolto e distrutto un partito centenario. Quel popolo scelse a maggioranza Berlusconi quasi come uno scudo e per evitare che i fratelli separati, e quasi travolti dal crollo del muro, avessero partita vinta in una sorta di gara di ritorno condotta da un arbitro parziale. Per la verità non solo le indagini giudiziarie, ma anche gli errori politici, portarono il Psi alla dissoluzione e su questo mi diffonderò più avanti. Ma non c’è dubbio che l’alta marea non si sviluppava in ogni direzione. Quel clima persecutorio che soprattutto i compagni di base hanno avvertito come un’ostilità immotivata e crudele, è oggi finito. E’ questo l’aspetto più confortante e sarebbe assurdo continuare il conflitto come facevano i giapponesi nelle sperdute foreste nipponiche, senza che la guerra ci sia più. Recentemente una persona della quale per correttezza non svelo il nome, mi ha scritto su facebook una bella mail confessando di avermi offeso per strada durante Tangentopoli con un epiteto indegno non solo per un dirigente politico. Era poco più di un ragazzo e ricordavo bene quell’episodio. Adesso mi ha chiesto scusa. Le sue parole mi hanno commosso. Il tempo è galantuomo. E negli ultimi anni tante sono state le ammissioni di colpa per ciò che è stato fatto ai socialisti. Tante sono state le scuse. Tante sono state anche nei confronti di Craxi le revisioni di giudizio. Se non ricordo male cominciò D’Alema nell’estate del 1995, credo su suggerimento di Giuliano Amato, ma anche nella convinzione, a volte in politica c’è una nemesi, che l’elettorato socialista che aveva fatto vincere Berlusconi poteva essere recuperato tracciando il percorso del suo ventennale leader con una lente meno deformata. D’Alema riconsiderò la fase craxiana del Psi e ammise l’esistenza, in essa, di anticipazioni politiche e di intuizioni di rilievo. Forse, se anzichè cercare la sinistra democristiana i post comunisti del dopo Muro avessero cercato davvero i socialisti, se avessero esaltato un po’ di più Turati e un po’ meno Dossetti, se avessero dato vita a un partito di natura e denominazione socialista o socialdemocratica non so se avrebbero convinto la maggioranza dell’elettorato dell’ex Psi, ma certo avrebbero reso ancora più immotivata la scelta di stare col centro destra. Io stesso, per una fase, dopo essere stato processato senza colpa dal tavolo giacobino dei progressisti nel 1994, con tanto di sanculotti e tricoteuses, dopo aver scelto per un periodo il ritiro dalla vita politica, ho ritenuto che era meglio allearsi con una destra democratica che con una sinistra giustizialista e ostile verso i socialisti. Non mi vergogno di questo e non ritengo di dovere delle scuse a nessuno. Certo ho sempre pensato, anche in quel periodo, che si trattasse di una collocazione anomala, da stato di necessità e che mai un socialista avrebbe potuto collocarsi addirittura in un partito organico di centro destra e in una Europa popolare. Sapevo che si trattava di una scelta transitoria e appena lo Sdi è fuoriuscito dalle alleanze tattiche che oscuravano l’identità socialista e ha scelto la Costituente vi ho aderito con entusiasmo, lasciando i comodi scranni parlamentari per un’avventura che si è poi scontrata con il mancato apparentamento elettorale veltroniano. Apparentamento concesso invece a Di Pietro mentre lo si negava ai socialisti, i quali hanno sbattuto il muso nell’insormontabile ostacolo del voto utile. Il tempo è galantuomo. Anche quella scelta è oggi criticata da quegli stessi che l’hanno proposta e praticata. E Di Pietro da alleato, dopo aver negato i presupposti stessi dell’alleanza, si è trasformato in una sorta di vampiro del Pd. Gli hanno consentito di avere i denti e adesso può succhiare tranquillamente il loro sangue.Il tempo è galantuomo, ma non per tutti. L’on. Antonio Di Pietro ha detto, a proposito del decennale della scomparsa di Craxi: “Mi auguro che il presidente della Repubblica, se parteciperà a un ricordo su Craxi, lo ricordi per quel che è stato: un corrotto, un condannato, un latitante. Altrimenti non racconterebbe la verità nemmeno lui”. C’è qualcosa di crudele, lasciamo un attimo fuori la politica, ma c’è qualcosa di crudele nell’atteggiamento dell’ex piemme di Milano passato alla politica. Non c’è un dirigente politico italiano che a fronte della morte di un suo avversario, anche accusato delle peggiori colpe, non metta da parte l’astio e non faccia prevalere un umano sentimento di pietà. Di Pietro no. Recita la sua parte, del Torquemada meneghino, dell’inflessibile, ruvido e impietoso accusatore. Una sorta di Wishinski del tempo moderno che non può svestirsi mai dei suoi panni, pena l’annullamento completo della sua stessa ragione di esistere. “C’è sempre un puro più puro che ti epura”, recitava Pietro Nenni. L’alter ego di Di Pietro, De Magistris la spara alta e il girono dopo Di Pietro la spara ancora più alta in un crescendo inquietante di crucifige e di roghi. Chi è senza peccato scagli la prima pietra, ma chi è senza peccato non scaglierà certo Di Pietro. Esistono in Italia una sinistra riformista e una sinistra massimalista. Difficile trovare un accordo tra le due. Ma quello che a me pare davvero impossibile e perfino controproducente è continuare a far finta che esista un punto di intesa tra la sinistra riformista e i giustizialisti, che secondo me non sono certo di sinistra. Cito a tale proposito tre prese di posizione. Scrive Enrico Letta: “Con questa continua rincorsa, Di Pietro e De Magistris portano il centro sinistra nell’abisso e sono i migliori alleati di Berlusconi”, gli fa eco Walter Veltroni: “L’alleanza con l’Idv è finita nel momento in cui Di Pietro non ha mantenuto l’impegno di formare un gruppo unico col Pd in Parlamento”. Più chiaro ancora Massimo D’Alema: “Alle prossime elezioni dovremo fare altre alleanze, perchè la dipietrizzazione del centro sinistra è destinata a sfociare nel minoritarismo”. Sottoscrivo D’altro canto non mi convince neppure questa equiparazione di Craxi e di Berlusconi che vien spesso fatta dagli ex socialisti del Pdl. Non diciamo eresie. Craxi era solo, nel momento della disgrazia e della disperazione. Non aveva giornali, televisioni, gruppi economici, né una maggioranza che lo difendeva a spada tratta, né avvocati a tempo pieno. Anzi i poteri forti erano tutti contro di lui. Dietro di sé non aveva né l’amico Putin, né l’amico Bush. L’Msi sfilava davanti alla sede di via del Corso così come il popolo della monetina sfilava ignobilmente davanti al Raphael. E la Lega agitava cappi, mentre Vittorio Feltri col suo Indipendente spronava la magistratura alla caccia del cinghialone. Se vogliamo ricordare Craxi lo dobbiamo fare per quel che Craxi è stato. Divido la sua vita politica in quattro fasi. La prima è quella del suo impegno autonomista, come delfino di Pietro Nenni, del quale il 1 gennaio è ricorso il trentesimo anniversario della morte, e poi come segretario del Psi del cosiddetto nuovo corso. Bettino era figlio di Vittorio Craxi, vice prefetto della liberazione di Milano e poi prefetto di Como. A 14 anni aveva perfino attaccato i manifesti del Fronte popolare. Ma poichè suo padre, capolista socialista del Fronte, non venne eletto maturò qualche risentimento verso l’arroganza dei comunisti. Il distacco dal Pci avvenne con Nenni dopo lo storico 1956, con le scelte successive al XX congresso del Pcus e all’autunno ungherese. Entrò per la prima volta nel Comitato centrale del Psi col congresso di Venezia del febbraio del 1957, che segnò la fine del patto d’unità d’azione, a seguito della solidarietà dichiarata dai socialisti di Nenni agli insorti di Budapest che contrastava con quella dei comunisti di Togliatti che plaudirono ai carri armati sovietici. Si rintanò nella sua città, fu assessore a Sesto San Giovanni e consigliere e poi assessore a Milano, poi segretario della federazione socialista milanese. Nel 1968, col Psu unificato di Nenni e Saragat, che avevano ricominciato a incontrarsi a Pralognan nell’agosto del 1956 e riuscirono a unificarsi solo dieci anni dopo, Craxi divenne deputato. Fu a capo della corrente nenniana con poco più del 10% dei consensi nel partito, fu vice segretario di De Martino e poi dopo le elezioni del 1976, quelle caratterizzate dall’infausto slogan demartiniano, “mai più al governo senza i comunisti”, che, com’era ovvio, contribuì a premiare il Pci e a punire il Psi, partito gregario, al Midas, nel luglio del 1976, venne chiamato alla segreteria del Partito. Tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta il Psi, che sembrava un partito archeologico a fronte del continuo allontanamento del Pci berlingueriano dai partiti fratelli, distacco che rischiava di comprimere sempre più lo spazio socialista in Italia, ritornò alla luce con una mole di iniziative politiche e culturali di difficile emulazione. Noi lo seguimmo e personalmente anch’io, che avevo militato nella sua corrente anche quando era minoritaria, mi sentì, come un po’ tutti, entusiasta del nuovo corso socialista a cui a Reggio contribuimmo costruendo una gruppo dirigente giovane, colto e vivace, forse fin troppo, per alcuni. Alcune iniziative hanno lasciato il segno: il confronto su pluralismo e leninismo (con quel saggio che venne ricordato come quello su Proudhon), quello su pluralismo economico e pluralismo politico, il confronto aperto sulla grande riforma istituzionale. Siamo alla fine degli anni settanta e si radunano attorno a Craxi alcuni intellettuali di sinistra che provenivano da esperienze diverse. Tra loro c’era anche Paolo Flores D’Arcais che è oggi approdato su ben diversi lidi. Ma c’era Norberto Bobbio su tutti e Giuliano Amato e Federico Coen che dirigeva Mondo Operaio, che da semplice rivista divenne centro culturale e anche libreria in via Tomacelli. E come non dare a Craxi il merito dell’elezione di Sandro Petrini alla presidenza della Repubblica nel luglio del 1978? Aveva puntato su Giolitti, ma alla fine un socialista doveva andare al Quirinale e ci riuscì. E dopo poche ore venne a Reggio a festeggiare con noi all’ex Caserma Zucchi alla festa dell’Avanti. Poi la conferenza di Rimini del 1982 e l’intuizione di Claudio Martelli sull’alleanza tra il merito e il bisogno. Il Psi di Craxi in quegli anni riprese il dialogo con le altre forze del socialismo europeo (Craxi venne anche spregiativamente definito “il tedesco” perché troppo vicino a Brandt e a Schmidt, ma volle aiutare concretamente Felipe Gonzales e i socialisti spagnoli, nonchè Mario Soares e quelli portoghesi prima e dopo l’avvento della democrazia e fu con Jiri Pelikan e il dissenso cecoslovacco fino all’elezione di Pelikan al parlamento europeo nelle liste del Psi), elaborò il progetto dell’alternativa socialista approvato dal Congresso di Torino del 1978, tentò di aprirsi un varco negli anni difficili dell’unità nazionale e sul caso Moro si oppose alla tattica della fermezza in nome del principio, che valse poi anche durante l’episodio dell’Achille Lauro, della priorità della difesa della vita umana. La seconda fase è quella della presidenza del Consiglio, che dura dal 1983 al 1987, e me la cavo con poco, ricordando che il governo Craxi (per la verità furono due, ma solo fotocopia l’un dell’altro) fu il più duraturo, fino ad allora, d’ogni altro governo, che contribuì a portare l’inflazione da due a una cifra, che ebbe il coraggio del patto anti inflazione col decreto di San Valentino e vinse il referendum sulla scala mobile, che varò un nuovo Concordato in nome della laicità dello Stato introducendo per la prima volta l’insegnamento della religione come facoltativa, che ebbe il coraggio, dopo aver assentito all’installazione degli euromissili a Comiso, anche di dar l’ordine di circondare i militari americani a Sigonella in nome della dignità nazionale, e di condannare i bombardamenti di Reagan su Tripoli e Bengasi. Il Psi arrivò a toccare il suo massimo storico, il 14,3% con le elezioni del 1987. Mi aveva confessato Bettino, mentre da Modena lo accompagnavo a Reggio in campagna elettorale. “Se non ci danno i voti stavolta… Siamo stati anche fortunati, però”. E si riferiva alla congiuntura economica positiva. Sapeva a volte sorprenderti. Se ti aspettavi una risposta te ne dava un’altra. Come quando gli avevo parlato delle bombe fasciste in Italia nel 1974 e lui diceva: “Ma lascia stare il fascismo che è stato una cosa seria. Questi sono terroristi”. E che dire quando s’aprì il confronto sul dopoguerra reggiano e mi lasciò gelato: “Dovete essere prudenti se no ci tireranno fuori anche Pertini”. E poco prima su Ceasescu e sui morti in Romania “Ma che 100mila, saranno stati al massimo qualche centinaia”. Dato poi confermato da Amnesty. Sapeva andare contro le mode e le consuetudini, le parole d’ordine scontate, i dogmi e i tabù inviolabili. Tutto questo lo rendeva imprevedibile, originale e a volte anche simpatico. Oltre che intuitivo, coraggioso. Anche se appariva arrogante, chiuso, intrattabile. Recuperò appieno alla storia del socialismo Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi, che era in realtà il suo eroe preferito, colui al quale aveva dedicato un vero e proprio museo casalingo. In fondo il suo temperamento temerario e ribelle, quel suo condurre la battaglia a viso aperto anche contro i più forti, era un’ispirazione anche della sua azione politica, un po’ corsara, garibaldina appunto. Così quando ad Hammamet qualcuno gli chiederà di prestare il suo nome per una nuova lista socialista volle rispondere con le parole di Garibaldi al richiamo della Francia per la spedizione dei Vosgi del 1870: “Ce que reste de moi disposez”. Intanto s’era aperta una terza fase, quella a mio avviso più critica della vita politica di Craxi. Una fase che non esito a definire quella della stagnazione, prendendo a prestito uno slogan di Gorbaciov sulla storia sovietica. Il Psi era sulla cresta dell’onda dopo l’87, ma non seppe approfittarne. Volle rimanere fermo, quasi immobile nel momento in cui tutto intorno a noi cambiava. L’unico disegno chiaro era quello di puntare al ritorno alla presidenza del Consiglio, dopo Goria, dopo De Mita, magari dopo Andreotti e con il suo appoggio e quello di Forlani. Questo disegno si frantumò con la caduta del Muro e con l’89 europeo e italiano. Nacquero le Leghe e finì il Pci, che divenne Pds e seppe scrollarsi di dosso i calcinacci del muro di Berlino che finirono, solo in Italia, addosso agli altri. Il Muro di Berlino cadde in Italia all’incontrario? In qualche misura penso di sì e le forze non comuniste ebbero la grave responsabilità di non accorgersene. Il momento della vittoria storica del socialismo democratico sul comunismo, anche nella sua versione italiana, venne vissuto con paura. Craxi me lo confessò a Bologna durante l’ultimo congresso del Pci, quello del pianto di Occhetto. Lo ascoltavo e non capivo. Certo, se l’unico ruolo del Psi era quello di costituire la componente di sinistra democratica nell’alleanza con la Dc, quel ruolo era finito. Ma se i socialisti avevano l’ambizione di guidare una nuova sinistra socialista e democratica offendo un’Arca di Noè, come qualcuno disse, ai profughi del comunismo, quel nuovo ruolo era entusiasmante e decisivo. Si inciampò in questa svolta e si sbandò nella discesa dopo aver scalato con successo il Gran Premio della storia. Craxi propose l’unità socialista relegandola nelle nebbie di un futuro indecifrabile, Occhetto, dal canto suo, propose di andare oltre, oltre il comunismo, oltre il socialismo democratico, e non si fermerà approdando poi in diversi partiti, oltre misura. E lì iniziò la nostra disgrazia, assai prima di Tangentopoli. Mi accorsi di questo e per questo dal 1992, ma era tardi e sbagliammo anche noi i tempi, ci mettemmo all’opposizione di Craxi con Martelli e altri. Tangentopoli era già esplosa e forse demmo anche l’impressione di non difendere come avremmo dovuto il nostro leader. Impressione subito corretta col voto dell’aprile del 1993 sulle autorizzazioni a procedere, che confessai ai giornali reggiani e che mi costò assai caro: critiche interne nel mio partito, dove emersero, come capita nei momenti di acuta crisi, anche un po’ di pescecani e addirittura feroci accuse fuori. Su Tangentopoli, e siamo alla quarta e ultima fase di Craxi, azzardo solo alcune domande. Vorrei che rispondeste voi, le mie sono forse anche un po’ retoriche. Prima domanda. D’accordo, accedo all’idea che non si è trattato di un complotto, ma possiamo almeno oggi parlare di sproporzione? Craxi stava per essere condannato, tra sentenze passate così velocemente in giudicato e quelle in corso d’opera, praticamente all’ergastolo, considerata la sua età. L’ergastolo è una pena giusta per chi si macchia di finanziamento illecito alla politica con reati connessi? Seconda domanda. D’accordo, posso anche ammettere che non tutti i partiti erano uguali. Certo è più facile spartirsi tangenti dal governo nazionale o locale che non dall’opposizione. Ma vi sembra giusto condannare un leader politico, spesso col solo assioma o teorema, com’è stato definito, del “non poteva non sapere?”. Terza domanda. D’accordo, quel siamo tutti correi non può fare piacere a un vecchio militante socialista che si è sempre vantato d’essere un galantuomo, né è un’attenuante per chi ne è soggetto, ma perché nessuno rispose a quel discorso di Craxi alla Camera in cui egli invitava gli altri ad alzarsi per dire di giurare di non essersi mai macchiati di finanziamento irregolare perché presto a tardi sarebbero stati ritenuti spergiuri, e ha partorito solo quell’imbarazzante silenzio dell’Aula, che ben ricordo: l’ imbarazzante silenzio ipocrisia, il silenzio verità. Prendiamo anche atto di quel che scrisse D’Ambrosio secondo il quale i soldi li Craxi li prendeva per la politica e non per sè. Infine. D’accordo, occorre rispettare sempre le sentenze della magistratura. Ma perché non ci fu concesso di costituire una commissione di indagine parlamentare su Tangentopoli, in un paese in cui le commissioni si costituiscono anche su fatti di ben minore rilevo e conseguenze? Ad una domanda di Francesco Cossiga che era andato a trovare Craxi ad Hammamet poco prima della sua scomparsa, quest’ultimo, a proposito dell’utilizzazione dei finanziamenti del Psi, rispose: “Io non posso mischiare le mie vicende giudiziarie con grandi cause di libertà e di liberazione”». Scrive “La Stampa” del 15 gennaio: “Ma ora, per la prima volta, di quel cospicuo flusso di denaro “sporco” a sostegno di cause di libertà, di partiti clandestini e di movimenti di liberazione, si sa qualcosa di più: nel corso di una lunga chiacchierata – ben 18 ore di girato, che Craxi fece nella casa di Hammamet con Luca Josi – l’ex presidente del Consiglio raccontò diversi dettagli di quel filone: “Per molto tempo aiutammo i socialisti spagnoli in clandestinità, i portoghesi, aiutai alcuni compagni cileni a salvarsi dalle grinfie della dittatura”.
Vorrei che si discutesse oggi con senso delle verità e della giustizia del caso C, com’è stato definito. Io non credo di avere omesso nulla. C’è una storia che è fatta di generose e preveggenti intuizioni, e ci sono errori anche decisivi, c’è il senso di appartenenza alla storia patria e il servizio ad alti livelli prestato al Paese, c’è l’orgoglio di essere socialisti e italiani è c’è anche l’accettazione del metodo di un finanziamento che era pressochè elevato a sistema e che è stato pagato a così alto prezzo solo da uno. Sullo sfondo il sacrificio di un leader politico e di un uomo, che ha rappresentato la storia del Psi per quasi vent’anni. Bisognerebbe riflettere su questo: il consenso avuto da Craxi all’interno del Psi è imparagonabile a quello degli altri suoi leader storici: Turati, Nenni, per non parlare di De Martino e Mancini. Ed era, Craxi, l’unico leader che venne eletto senza detenere una maggioranza. L’idea del riscatto, l’onda lunga, la capacità di mettere la sua politica, non i suoi soldi o il suo opportunismo, la sua politica, al centro dell’attenzione nazionale e di riscuotere sempre progressivi, anche se mai clamorosi, consensi, tutto questo aveva convinto tutti i socialisti, un popolo mai abituato a vincere e spesso costretto a subire. Dico tutti perché li conoscevo bene. E non solo convinto, ma anche un po’ rapito. E in particolare quelli di ceto più popolare. Altro che yuppismo. C’è anche la nostra storia, la nostra vita. Io ho il massimo rispetto per tutte le storie, per tutte le vite. Per un certo periodo sembrava che solo noi dovessimo vergognarci della nostra. Era crudele, inaccettabile. Ingiusto. La corruzione esisteva. Anche nel Psi. Ma mi ha molto stupito quella rappresentazione di Giorgio Bocca apparsa recentemente su La Repubblica con la sua immagine del Psi milanese. Un partito solo affari, senza politica. Non è vero, non è giusto, è una versione caricaturale. Tognoli, Pillitteri, Finetti, Aniasi, Zafra, per citarne alcuni, che conoscevo bene, erano ottimi amministratori e politici di primo piano, che avevano cominciato la loro attività nelle file del movimento giovanile, che avevano amore per la politica. Ma non dobbiamo passare all’opposto e non ammettere che soprattutto in certe aree del paese la corruzione era elevata a sistema. Non solo nel Psi, sia ben chiaro, ma anche nel Psi, che, e lo dobbiamo riconoscere, deteneva un eccesso di potere e in alcuni suoi esponenti, purtroppo neppure pochi, mostrava anche un eccesso di disinvolto comportamento. Resto tuttavia ancorato a una vecchia massima di Riccardo Lombardi “Noi socialisti abbiamo commesso molti errori di cui pentirci, nessuno dei quali tale da doverci vergognare”. Anche perché, negli anni in cui qualcuno ci chiedeva di vergognarci, valeva il detto del buon Rino Formica, coniugato col suo barese stretto che mi piaceva così tanto imitare: “Qui ci chiedono di vergognarci non tanto delle nostre colpe, quanto delle nostre ragioni”. Questo non lo potevamo accettare. Delle nostre intuizioni di svecchiamento e modernizzazione della sinistra, del nostro rapporto col socialismo europeo, della nostra laicità e della nostra continua battaglia per i diritti civili, del nostro riformismo sociale ed economico, del nostro appoggio a tutti i popoli, dell’est come dell’ovest e del sud, che si battevano per la loro autodeterminazione e libertà, della nostra appartenenza a una tradizione, quella del socialismo riformista che proprio a Reggio ha creato un modello invidiato in tutta Italia, di questo noi eravamo e continuiamo invece ad essere orgogliosi. E arricciamo un po’ il naso quando, anche a proposito delle celebrazioni del nostro tricolore vengono esaltati, com’è giusto, Nilde Iotti e Giuseppe Dossetti come costituenti, dimenticando proprio Alberto Simonini. Cioè un pezzo importante della storia della sinistra riformista e laica, della storia di Reggio. E su Reggio vorrei aggiungere due parole per manifestarvi una convinzione che da tempo mi tengo in serbo. La federazione socialista di Reggio, anche negli anni ottanta, era composta da un gruppo dirigente sano, appassionato di politica, onesto. Eppure anche noi siamo stati omologati alla condanna infernale. Eravamo un centro culturale e di azione politica. Eravamo un gruppo di amici e voglio qui citare Ascanio Bertani, Federico Giometto e Angelo Brindani (e prima ancora Ivan Medici e Angelo Pisi) che non sono più tra noi e che colgo l’occasione di ricordare qui con voi, con affetto e rimpianto. La dimensione del dolore e della sconfitta ci ha anche oltremodo maturato. A volte anche dal male puoi estrarre il bene. E ha anche selezionato chi era socialista e chi faceva il socialista. Forse è anche una questione di carattere. Ma è facile fare politica quando si vince e si gestisce il potere. Più difficile è non mollare, ripartire da zero, ricominciare, anche in pochi, scordandosi il periodo delle vacche grasse e contando solo sulla forza delle idee. Forse in tanti non pensavano che saremmo stati di questa pasta. Siamo stati capaci di non rassegnarci e di non stare fermi (in molti ci hanno abbandonato, in molti sono rimasti a casa, in molti, in troppi, hanno vestito altre casacche), ma sul nostro passato non è sceso l’oblio né è stato stampato quel giudizio d’infamia che era stato scolpito. Su questo abbiamo vinto e ne dobbiamo andare orgogliosi. Ma l’obiettivo che finora abbiamo tutti fallito riguarda la rinascita in Italia di un soggetto socialista. Abbiamo tentato di ricostruirlo a sinistra, a destra, in autonomia. Abbiamo fallito. Una forza socialista, democratica, riformista e liberale, ormai è chiaro, potrà anche rinascere, ma non saremo solo noi, vecchi reduci del vecchio Psi, i protagonisti della resurrezione. Questo patrimonio non dobbiamo anche per questo farlo vivere oggi nella dimensione della nostalgia, né nella psicologia del fortino assediato. Fare come coloro che attendevano ansiosamente i tartari nel bel deserto di Buzzati, anche se i tartari non c’erano. Dobbiamo, come poi s’è fatto a Reggio col Circolo Prampolini assieme, oltre a Vincenzo Bertolini, che è stato amico dei socialisti anche quando era difficile e rischioso, ad Antonio Bernardi, Giuseppe Amadei, Gianni Bernini, Nando Odescalchi e altri, dobbiamo far vivere il meglio della nostra tradizione sfondando i recinti. Conquistando nuove aree e nuovi proseliti. E dilatando l’influenza della nostra identità e il suo raggio d’azione. Facendo vivere così anche il meglio dell’esperienza di Craxi e del suo socialismo, liberale e garibaldino. In fondo non c’è un altro motivo se non questo per affermare la nostra perdurante insistenza nel panorama politico italiano. Insistenza nella coerenza. Giacchè individualmente ognuno può svestirsi degli antichi panni e confezionarsi un vestito nuovo di zecca. Correndo però il rischio di parafrasare il titolo di un film degli anni ottanta “Sotto il vestito niente”. Noi pensiamo invece di avere un’anima, qualcosa di molto importante. E la mettiamo a disposizione di una area politica che ci appare ancora priva di anima. Senza radici storiche. Spaesata. Sfuocata. Perché prima o poi anche le identità ritorneranno a prendere quota nel nostro paese. Senza le identità la politica si corrompe. E si riduce a una semplice conta elettorale e alla presa del governo del Paese come fosse una Bastiglia da espugnare. Con i bei risultati di questi anni. Noi non sogniamo un ritorno al passato. Diventa anche impossibile. Sogniamo un’Italia del futuro fondata sul rispetto della storia, sulla omogeneità con l’Europa, sul contrasto di valori e non solo sul culto della vittoria elettorale. Per questo, noi che non abbiamo quasi più bacino elettorale, noi che siamo dispersi nel panorama dei partiti esistenti, e cito anche coloro che si sono rifugiati, e sono i più, nel berlusconismo come antidoto al giustizialismo, noi dobbiamo e possiamo avere fiducia. Non fiducia perché ritorni Craxi, il chè è anche scientificamente impossibile, o il craxismo, che senza Craxi non avrebbe proprio senso e si ridurrebbe a una parodia perfino negativa e controproducente, né possiamo andare alla ricerca di nuovo uomo della provvidenza socialista, noi dobbiamo e possiamo avere fiducia perché il meglio del nostre idee e della nostra vita politica, che non sarebbe per niente stata così spesa invano, possa trovare un nuovo luogo in cui esprimersi ed affermarsi. Non è l’attesa messianica della terra promessa dopo la diaspora. Ma è la certezza che non solo il tempo è galantuomo, ma che anche le buone idee sono destinate a dar frutti. Rino Formica, con una delle sue solite frasi scolpite nel marmo, ha dichiarato: “Se il morto è vivo vuol dire che i vivi sono morti”. Mi accontenterei che i vivi fossero giusti. Verso chi è morto e verso chi è ancora vivo. Credo sia questo il modo migliore per ricordare Bettino Craxi, non il punto di riferimento di un più o meno piccolo partito, ma uno dei leader di una lunga tradizione fondamentale, insostituibile, indispensabile per una nuova e moderna sinistra democratica, riformista, laica e liberale. Cioè socialista.
Leave your response!