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Unire i socialisti, Todi dei laici (l’intervento di Del Bue al congresso del Psi)

4 Dicembre 2011 1.588 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Su quel che accade e su tutto quel che è accaduto nel nostro Paese in questi diciotto anni, forse noi più di altri, noi che abbiamo dato un grande contributo al progresso di questa nostra Italia e che siamo stati praticamente assenti in questi anni di complessivo arretramento democratico, economico e civile, noi abbiamo tutto il diritto di prendere la parola, anzi avremmo anche il diritto di usare la matita rossa e quella blu. La colpa grave della cosiddetta prima repubblica sarebbe d’aver accumulato il grande debito italiano, che negli anni ottanta, nei vituperati anni ottanta, sarebbe cresciuto a dismisura. Prendiamo i dati ufficiali, i dati Istat. Dopo l’esperienza del governo Craxi, cioè nel 1987,  il debito era all’85% del Pil e la crescita al 3%, al 3,5%. Oggi è al 120% e si è consolidato tra il 1993 e il 1995, è leggermente diminuito tra il 1996 e il 2007, poi ha ripreso a correre. Con un Pil in crescita media dell’0,6% negli ultimi dieci anni. Certo anche negli anni ottanta il debito è cresciuto, ma a fronte dell’istituzione del servizio sanitario gratuito, di un sistema previdenziale tra i più costosi e di un gettito fiscale tra i più bassi. Il debito è stato aumentato col consenso di tutti e se dal 1987 in poi è così cresciuto la responsabilità non credo sia dei socialisti. Anzi, il debito è cresciuto a dismisura senza i socialisti. Dopo aver risposto del nostro presunto peccato originale, potremmo guardare avanti con relativa fiducia perché tre elementi lavorano nella direzione da noi auspicata, e quando dico noi non penso a quel che siamo stati né a quel che siamo oggi, penso a noi come una tendenza politica, a una risorsa della nostra democrazia, a un filone storico, a un pensiero sepolto, quello identitario del socialismo liberale che è stata la nostra anima e che è oggi scomparso in Italia come tutto quello che ha che fare con l’anima della politica. Se è molto complicato oggi resistere è, innanzitutto, perchè siamo l’unico partito identitario in un sistema non più identitario. Dove quel che conta tuttora non è chi sei e cosa vuoi, ma con chi sei e contro chi sei. E allora è difficile risorgere se non cambia il sistema. Quel che vedo è che non solo il sistema politico di oggi ha creato danni a noi, ma ha creato danni all’Italia. E che oggi sì è aperta finalmente una transizione, sia pur assai discutibile per la forme che si è data, dalla quale difficilmente si retrocederà fino al punto di partenza. E, infine, che la necessaria costruzione dell’Europa politica a fronte della crisi mette ancor più in evidenza l’anomalia del nostro sistema politico e la necessità di adeguarlo a quello europeo. Sono tre buoni motivi per resistere ancora e per guardare avanti con fiducia. Cominciamo dall’Europa, cioè dalla crisi. La crisi mette in gioco molte certezze. Il socialista Zapatero non ha avuto minori difficoltà a fronteggiarla del conservatore Berlusconi, e così pure il socialista Papandreu non è si sentito davvero avvantaggiato per le sue idee. La verità è che non esiste più una via nazionale al superamento della crisi. D’altronde, se i nostri titoli di stato sono per il 50% in mano agli stranieri possiamo pensare che gli stranieri si disinteressino di noi? Il vero problema è che a fronte della globalizzazione economica non c’è stata una globalizzazione politica. Non avanzo naturalmente la suggestione di Dante Alighieri nel suo “De Monarchia”, quando parla di un governo, lui pensava a una monarchia, ma io sono repubblicano, di carattere universale. Ci si arriverà prima o poi. Basterebbe oggi un governo europeo. Ma se noi abbiamo voluto fare solo l’Europa monetaria, non possiamo poi scandalizzarci se nella stanza dei bottoni, per usare il vecchio gergo nenniano, ci sia oggi la Bce. E da chi altro deve essere guidata l’Europa dell’euro? Oggi pare d’essere tutti in mano alla Bce con le sue lettere e all’asse Merkel-Sarkozy che credo vivano più tempo insieme che separati, tra saluti, sorrisi, ammiccamenti, pretese, improvvisi litigi. Colgo un elemento per noi di indubbio interesse. Ed è che non solo l’Italia ma anche l’Europa rimandano in qualche misura al bisogno di noi. Che senso ha, infatti, mantenere un sistema politico italiano avulso da quello europeo, anomalo e figlio naturale della vecchia anomalia italiana? Quella dominata da un fattore K (la presenza del più forte partito comunista d’occidente) che si è trasformato nel fattore D (la presenza dell’unico partito democratico d’Europa). Cos’ha di europeo tutto questo? Attorno a questa crisi ha ripreso vita anche un movimento che sostiene l’inevitabilità del tramonto del sistema capitalistico. Da un’altra parte c’è invece chi insiste sulla immutabilità di una forma di libero mercato, anche finanziario e di piena acquiescenza alle sue regole, demonizzando la spesa pubblica e qualsiasi ruolo dello Stato nell’economia. Mi paiono entrambe posizioni sbagliate. La prima perché confonde la crisi col tramonto, la seconda perché s’arrende alla crisi. Molti vi hanno attinto l’idea del superamento di quello che noi definiamo socialismo liberale, penso alle posizioni del vecchio Psi, poi di Tony Blair, e di qualche altro leader europeo. Ormai ci sarebbe insomma un conflitto insanabile tra socialismo e liberalismo. Cioè occorrerebbe definire una presenza assai più costante e cospicua dello Stato nell’economia e non una più massiccia presenza d’una società solidale e d’uno Stato snello. E’ vero semmai il contrario. Io penso che la crisi debba azzerare molte convinzioni eccetto tre. E cioè che la democrazia vada mantenuta e che il libero mercato non vada distrutto (non si sa poi con quale modello sostituito), ma che vada tuttavia regolamentato e che la cornice europea vada finalmente costruita. Esiste la necessità di un grande ritorno alla politica, se non si vuole che tutto sia ormai ridotto ai diktat dei mercati. Non di una bassa politica che ha bisogno dei tecnici per legittimarsi, ma di una politica alta dalla quale semmai i tecnici attingano gli orizzonti verso i quali incamminarsi. Di una politica che risponda all’esigenza di un sistema che faccia perno sulla storia dell’Italia e sul presente dell’Europa. E il governo Monti lavora, consapevole o no, in questa direzione perchè scrolla i vecchi equilibri. La cosiddetta seconda repubblica vacilla e il suo bilancio è in rosso. Inutile qui adesso ripercorre tutti i danni politici, economici, istituzionali prodotti dall’ambiguità di una repubblica mai nata. Al fondo di tutto, in questo diciottesimo anno di improduttivo e dannoso trapasso dalla repubblica dei partiti a quella delle èlites, ci sta il dilemma che a giudizio di Rino Formica condiziona tutti i problemi italiani: e cioè un rapporto mai chiarito tra forma parlamentare e forma presidenziale. Col Mattarellum e col Porcellum pare che gli elettori votino il presidente del consiglio ma in realtà è ancora il presidente della repubblica che lo nomina. Così abbiamo vissuto per diciotto anni questa palese contraddizione, l’ambiguità di fondo della seconda Repubblica mai nata. Mi fa piacere che nella riunione dei cosiddetti riformisti di Milano sia stata rilanciata l’idea di una Costituente per scegliere la forma di governo che a loro giudizio dovrebbe essere quella presidenziale, mentre noi siamo più orientati al sistema tedesco. Potremmo anche riflettere se ne avessimo il tempo sulle motivazioni che hanno spinto i protagonisti di questa lunga fase a ignorare il problema. Ad accantonarlo, come del resto accantonati sono stati i grandi problemi di riforma del nostro tempo. A me francamente non viene in mente una sola riforma rilevante di questi diciotto anni, forse l’entrata nell’euro, un’operazione neppure tanto avveduta per le conseguenze che ci ha portato anche nella tazzina del caffè, mentre mi vengono alla mente tante riforme del primo centro sinistra: la scuola media unica e dell’obbligo, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la riforma dei patti agrari, l’abolizione della mezzadria, lo statuto dei lavoratori, la riforma sanitaria, le regioni eccetera, eccetera, eccetera. La verità è che la Repubblica dei partiti non ha avuto come successore la seconda Repubblica, ma un’ambigua e mai legittimata repubblica delle èlites. In questo contesto la repubblica delle élites ha visto sempre più l’affermazione delle personalità singole e non di formazioni politiche collettive ed è arrivata al punto dell’individuazione di un leader che si sostituisce al popolo. Altro che craxismo, che pure era fenomeno che puntava  sul carisma del capo, ma all’interno di un contenitore-partito, di un programma collegialmente elaborato e con leggi elettorali che impedivano al capo di scegliere gli eletti. Sia col Mattarellum, che oggi un incauto referendum vorrebbe ripristinare, sia col Porcellum, sono i leader politici che scelgono i deputati e senatori, non il popolo. Generalmente si ammette qua e là ormai tutto questo, anche se a denti stretti, ma si aggiunge che il bambino da salvare nell’acqua sporca sarebbe il bipolarismo. Finalmente l’Italia avrebbe avuto in questi diciotto anni un’alternativa di governo. Commento che si tratta più che di un’alternativa, di un ricambio automatico del governo che in Italia avviene in ogni consultazione politica dove ha sempre vinto l’opposizione dal 1996 ad oggi. Se questo bipolarismo bastardo non ha nulla di europeo, che non sia anche questo il motivo del suo mancato funzionamento? Il bipolarismo nostrano non é fondato, da un lato, su una forza d’ispirazione socialista e dall’altro su una forza d’ispirazione democristiana o conservatrice, ma da coalizioni di partiti medio-piccoli, messi insieme solo per vincere e poi generalmente incapaci di governare. Oltre tutto il bipolarismo nega le buone ragioni altrui, tende sempre a visioni unilaterali della politica, che mai come in questo momento rappresentano lenti deformanti la realtà. Facciamo un esempio. Nella repubblica delle élites, in vigore dal 1994, sono prepotentemente entrati in campo due (non solo uno) conflitti d’interesse. L’uno è quello dei magistrati che fanno politica, e che vogliono pesantemente introdursi sulla scena per tentare di cambiare maggioranze e governi, l’altro è quello di Berlusconi che ha messo insieme potere politico e potere dell’informazione. La sinistra ne ha visto uno solo, quello di Berlusconi, anche se poi non ha neppure voluto risolverlo con una legge, così come la destra ne ha visto uno solo, quello dei magistrati, senza però fare mai la riforma della giustizia. Noi dobbiamo vederli tutti e due. E su questo costruire la nostra autonoma iniziativa che è sarà solo nostra e forse, con noi, anche dei radicali. In nome dei principi di verità e di libertà. La fine dell’attuale sistema politico italiano è oggi anche una probabile evenienza. Come dobbiamo interpretare lo scenario che si è aperto in Italia col governo Monti? Parto dal presupposto che il governo Monti non aveva alternative se non le elezioni anticipate che sarebbero state un grave rischio per il nostro Paese e che avrebbero poi certificato la vittoria del trio di Vasto che a mio giudizio non sarebbe poi stato in grado di governare l’Italia. Punto. E a capo vorrei aggiungere, però, che non si era mai visto in Italia un governo composto da personalità cosiddette tecniche,  che nelle due circostanze in cui l’Italia ha scelto l’unità nazionale, e cioè nell’immediato dopoguerra e negli anni settanta, i governi sono stati composti dai partiti. In questa scelta c’è un alto indice di ipocrisia.  Chiamiamole pure convergenze parallele, per usare la terminologia che ha definito la maggioranza del governo Fanfani nato dopo Tambroni. Ma trattasi pur sempre di una maggioranza politica. E allora perchè non costruire un governo politico dell’emergenza? Ne avevano paura, paura di eccesiva contaminazione. Questo atteggiamento sconfina però nel ridicolo. Come quell’incontrarsi di notte alla ricerca della penombra come gli amanti clandestini che si nascondono. Un governo ombra, o penombra, dunque. Quel trattare coi bigliettini segreti inviati dai banchi di Montecitorio i vice ministri e i sottosegretari. Diciamo la verità, trattasi di un governo in cui i ministri, i vice e i sottosegretari sono stati lottizzati tra i partiti. E sarebbe allora giusto che i partiti se ne assumessero pienamente la responsabilità. Non se ne può più di ascoltare Rosy Bindi che in televisione continua, oltre a manifestare la sua nota simpatia per i socialisti, ad esprimere anche la sua altezzosa alterità rispetto al governo che pure sostiene. Un elemento mi pare tuttavia chiaro. Non so se le cose con Monti miglioreranno, non so se la cura, come penso, sarà di lacrime e sangue. Non si capisce perché se le cose con Monti dovessero migliorare si debba poi tornare a quel bipolarismo che invece le ha peggiorate. Vedremo. Dubito che a fronte di buoni risultati del governo attuale si possa d’un tratto passare oltre a fine legislatura. Sono molto contento che il compagno Carlo Vizzini abbia scelto di entrare nel Psi. Lo conosco da tanti anni e a parte la stima personale va a lui dato il merito di averci riportato in Parlamento e di aver consentito a Riccardo Nencini di essere ricevuto, durante la crisi, dal presidente della Repubblica. Certo esistono origini nazionali di alcuni problemi. Io penso, ad esempio, che per ciò che riguarda le giovani generazioni in Italia vi siano stati gravi e colpevoli ritardi ed errori non solo a destra, ma anche a sinistra. E che l’eliminazione dello scalone previdenziale decisa dal governo Prodi, e che ha comportato una spesa di circa 10 miliardi di euro per fare andare un pò più presto la gente in pensione, mentre i precari erano praticamente privi di protezione sociale, sia stato un errore davvero storico. Penso che questa società vada riequilibrata nell’ottica di quel patto tra le generazioni del quale parlava Claudio Martelli già agli inizi degli anni novanta. Il tentativo di rinnovamento è molto difficile anche a causa di corporazioni che tuttora esistono e sono assai potenti. Pietro Ichino ha formulato proposte sulla revisione del diritto del lavoro, sulla mobilità  e sulle conseguenti garanzie ai lavoratori, compresi i precari, che sono uguali a quelli della Danimarca e della Svezia. Ebbene il sol fatto di mettere in discussione l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori (e che in Italia peraltro i comunisti non votarono in Parlamento), gli ha procurato reazioni scomposte da parte della Fiom, della Cgil, di Vendola e del responsabile economico del Pd Fassina. Per di più il solo fatto d’essere un giuslavorista riformista gli ha procurato dieci anni di scorta per minacce alla sua incolumità. E noi saremmo un paese europeo o un paese medio-orientale? A mio avviso è giusto dire sì alla patrimoniale,  anche all’Ici sulla prima casa se è bene di lusso e anche a una equilibrata riforma delle pensioni e alla riduzione dei costi  della politica. Attenzione al taglio della democrazia, però, della quale si parla oggi solo in termini di risparmio. Se faccio due conti vien fuori questa sorta di democrazia italiana: il Parlamento è nominato e non eletto, i consigli regionali sono in parte nominati e non eletti, le giunte sono nominate e non rappresentano come un tempo i consigli, ma solo i sindaci e i presidenti, fra poco non ci saranno più le circoscrizioni nelle città inferiori ai 200mila abitanti, e secondo gli intendimenti, non ci saranno più neanche le provincie. Lanciamo un allarme. Ma esiste una democrazia rappresentativa in Italia? Esiste una sorta di nomenclatura che si autoriproduce, e una nuova generazione politica che anzichè chiedere di cambiare le regole, chiede di far parte della nomenclatura e di sostituire la vecchia, rottamandola.Voglio esprimere un pensiero per Lucio Magri che ha deciso di morire anche per ribadire che la vita e la morte delle persone non possono che appartenere alle singole persone e mai allo potestà di uno stato. Valeva ieri per Englaro e oggi per Magri, che salutiamo con l’affetto che merita un combattente per i propri ideali che a volte non sono stati i nostri. I socialisti sommersi, i socialisti di vocazione, i socialisti solo di nome pare emergano ovunque. Noi li dobbiamo saper ascoltare. E’ tempo che le famiglie tradizionali dell’Italia e dell’Europa si rimettano assieme. Lo dico anche per il nostro piccolo partito. Noi dobbiamo dialogare con tutti, senza barriere, senza prevenzioni. Tre sono le cose che mi sembrano inevitabili: che i socialisti in Italia siano anche socialisti in Europa, che i socialisti in Italia non siano organicamente e definitivamente legati alla destra, che i socialisti italiani siano anche liberali. Su tutto il resto la ricerca deve essere aperta. E mi auguro che sia soprattutto foriera di risultati. Ne abbiamo bisogno noi, ma credo ne abbia bisogno oggi l’Italia. Non so se valga oggi per noi quello slogan che Pietro Nenni mise a cardine del congresso di Milano del 1953: “E’l’ora dei socialisti”. Noi non saremo il farmaco magico per risolvere i problemi. Ma se l’Italia si europeizza non può restare anomala solo in politica. E’ l’ora di non aspettare più. Diamoci tutti una mossa, se la diano tutti c oloro che si considerano socialisti e poi sono altrove. E se la diano i laici ai quali ci rivolgiamo come alleati. Una Todi dei laici, ecco quello che si dovrebbe promuovere tutti insieme perché esiste una cultura che non può essere messa definitivamente in soffitta. Diamoci tutti una mossa, compagni e amici, per i futuro nostro, per il futuro dell’Italia, per il futuro dell’Europa.

 

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