Una Butterfly avvincente, ma quasi ad oratorio..
Tre momenti originali della regia. Il duetto d’amore del finale del primo atto viene vissuto da Pinkerton come una burla. Logicamente ci sta. Ci sta perché non si capisce come Pinkerton arda d’amore per Cio cio san, dopo avere appena confessato a Sharpless che il matrimonio vero sarà con una sposa americana, poi lascia il Giappone e la sposa americana la trova davvero. Però la musica di Puccini non ha nulla di ironico, di falso, di presa per i fondelli. Anzi si diffonde più melodica e pucciniana che mai, forse anche più dolce e struggente di quella del duetto d’amore tra Cavaradossi e Tosca. Dunque come conciliare queste note dolcissime che si aprono coi violini che ripetono l’aria dell’amore già dischiuse all’arrivo di lei e che crescono fino all’estrema esaltazione dei sensi celebrata nel finale dall’estatico colpo di piatto, con quei sorrisini di Pinkerton che si accendono ripetutamente come se in presa diretta ci fossero le comiche di Stanlio e Olio? No, no ci può stare. La seconda trovata è alla fine del secondo atto, prima del famoso coro a bocche chiuse. Sia Butterfly, sia Suzuki, sia il bimbo si inginocchiano e pare attendano il mistico rimbalzo del coro che dischiude la giornata e apre l’avvento della notte. Invece si chiude il sipario. Pare un clamoroso errore del palcoscenico. E invece il coro si diffonde a sipario chiuso. Il tempo per cambiare la scena? No. Perché ad inizio dell’atto successivo si può ascoltare uno struggente preludio di alcuni minuti. Dunque è una scelta registica. Vattelappesca. Non sarebbe stato più emozionante diffondere quelle note sulla scena per gustarsi quasi in un ripiegamenti mistico quello stacco tra la lunga attesa di Butterfly che ancora spera di rivedere il marito scomparso e la triste e angosciosa rivelazione del quadro successivo? Terza originale trovata la morte di Butterfly. La povera donna si pianta una sorta di coltellone da cucina sul collo, e lasciamo perdere, ma lo fa dopo e non prima di sentire la voce di Pinkerton che la chiama. Pare dunque che si ammazzi perché sente la voce del marito. Questo è davvero azzardato. Anzi, pare stonato, molto stonato, rispetto alla psicologia della giovane sposa. Non c’è in Butterfly alcuna esigenza di vendetta. La sua è autodistruzione per amore. Il resto, cioè la scenografia, non esiste. Il duetto d’amore si svolge in piazza. E il colloquio con il console in una sorta di palestra con piste di legno per esercizi ginnici. É una sorta di Butterfly ad oratorio. Benissimo l’orchestra e il direttore se si eccettuano alcuni non necessari movimenti enfatici e indemoniati. L’orchestra é la vera protagonista dell’opera. Nel primo atto con sonorità diverse, dalle preparazioni del banchetto nuziale, all’ira dello zio bonzo che appare sempre un po’ buffo con quella rima tra “occhi asciutti” e “son dunque questi i frutti” che a Illica e Giacosa poteva riuscire un po’ meglio, poi il lirismo del duetto d’amore. Il tutto intessuto con arie costellate di punture di fiati, con archi che si accavallano e ricercano wagnerianiamente il leit motiv. Ma anche con lo schema pentatonico della musica orientale che Puccini aveva avuto modo di apprendere grazie all’ambasciatore giapponese. Bene Cellia Costea, reduce dai tronfi di Tosca al Massimo. La rumena può, a buona ragione, proporsi come una Butterfly di alto livello. Ha fraseggio come dimostrato nel duetto con Suzuki, ha voce piena e anche sottile, sa renderla tenerissima. Sa estenderla senza difficoltà nei registri alti della disperazione. Si porta bene in scena perché è anche credibile, giovane e bella. Meno bene il Pinkerton di Giuseppe Varano. Niente di storto, ma il giovane tenore deve imparare a cantare nei toni medi e bassi, perché usare solo la spinta serve solo in taluni momenti. Nella prima romanza s’ode bene solo il suo America forever, il resto lo si intuisce. Diligente la Suzuki di Giovanna Lanza e bene il baritono Domenico Balsan. Ha l’aria alla Tino Scotti, quello della pubblicità del confetto Falqui. Ma anche questo rassicura. In fondo bastava che Pinkerton gli avesse dato retta..
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