Renzi, e adesso che fai?
Non sono mai stato renziano e non lo sono diventato. Ma non sono mai stato antirenziano e non lo sono oggi. Ho scritto di Renzi quel che mi piace e quel che non mi piace. Premetto che, come ricorda sempre il mio amico Bobo Craxi, sono stato l’unico che non osteggiava Renzi quando il partito scelse Bersani. Mi intrigava quel suo voler rottamare tutta la vecchia classe dirigente ex comunista, che aveva rottamato noi nel 1994. Mi arresi alla suggestione del patto che Bersani aveva contratto con Nencini, un patto a tre, Pd, Sel e noi. In realtà quel patto venne infranto proprio da Bersani, che non solo pretese di inserirvi Tabaccima minacciò, a quanto riferisce lo stesso Nencini, di non concederci l’apparentamento nel caso avessimo scelto di correre col nostro simbolo, posando sul piatto una miseria di candidature.
Non sono antirenziano per motivi ideologici, come quelli tipici di chi contesta qualsiasi innovazione nel mondo del lavoro. E mette spesso chi le concepisce, da Tarantelli a D’Antona a Marco Biagi, alla berlina dei terroristi. Non lo sono perché Renzi è il segretario del Pd che ha condotto il partito nel socialismo europeo dopo le terze vie americane di Veltroni, ma anche dei suoi successori. Non posso esserlo anche perché ha aperto le porte del suo governo, che Letta aveva tenuto chiuse, a un socialista e perché, e basterebbe quest’ultima ragione, non scommetto sul fallimento dell’Italia e spero ancora che il suo governo ci porti fuori dal tunnel.
Detto tutto questo, però, non posso essere renziano. Non ho apprezzato il modo cinico con quale ha fatto fuori Letta, con un colpo secco alla schiena. Non condivido il modo col quale seleziona la sua classe dirigente. Far fuori la Bonino per trovar spazio alla Mogherini, poi preferire quest’ultima a D’Alema in Europa, mi pare autolesionismo politico. Affidarsi solo a un gruppo di neofiti, anche se giovani e di bella presenza, anche. Non ho condiviso la sua proposta di riforma istituzionale e soprattutto elettorale. Non condivido il suo linguaggio. Va bene superare il politichese, ma non lo si supera con gli slogan calcistici. Non riesco a comprendere la sua cultura. È figlio di La Pira e va bene. Ma perché preferire Berlinguer ai socialisti? E perché esaltare l’Unita di Gramsci? Solo per dare zuccherini alla base ex comunista? Le scelte d’identità affidate all’opportunità sono finzioni orribili.
Soprattutto non capisco perché il rifiuto del dialogo col movimento sindacale. Craxi dialogò con tutti, anche con la Cgil di Lama, anzi soprattuto con la Cgil di Lama, prima di firmare il decreto di San Valentino. Renzi pare le abbia dedicato il tempo di un caffè. Capita poi che per la prima volta negli ultimi trent’anni, la Uil si sia accordata con la Cgil per uno sciopero generale. Operazione che non era riuscita nemmeno a Berlusconi. Soprattutto non riesco ancora a capire cos’abbia in mente per fronteggiare una crisi che non solo si proroga, ma si aggrava giorno dopo giorno. Qui non ci sono i gufi e i rosiconi, ma autorevoli agenzie di rating che certificano la nostra emergenza.
Renzi scelga un linea, ma la scelga. Si concentri su questo. Egli pensava che mantenere un buon rapporto coi vertici europei, e soprattuto con Angela Merkel, servisse. Puntava sui fantomatici 300 miliardi di Junker, diventati 21, per ora. Pensava che gli ottanta euro servissero a rimettere in moto i consumi e non è stato così, anche perché sono stati subito risucchiati da altre tasse e balzelli locali. Riteneva che la legge di stabilità avrebbe potuto tagliare le tasse, ma l’intervento di Katainen, che ha imposto di passare dal 2,9 del rapporto deficit-Pil al 2,4, lo costringe a diminuire la manovra di 5 o 6 miliardi. Quel che resta non basterà per contribuire a uscire dal tunnel. Servono scelte più decise: o uscire dal vincolo del tre per cento, come ha fatto la Francia, o vendere davvero parte rilevante del patrimonio pubblico. O forse, tutte e due le cose insieme. Un due a zero, direbbe Renzi. Anche se in contropiede.
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