Ciao Nenni, trentacinque anni dopo
Pietro Nenni ci lasciò all’alba degli anni ottanta. Ne aveva pronosticato l’esito con l’alternativa del “rinnovarsi o perire”, uno di quegli slogan tipici della suo modo di fare politica. Nenni è stato a lungo il leader del PSI. A cominciare da quel congresso del 1924 quando sconfisse Serrati, che voleva “una liquidazione sottocosto del partito”, per aderire all’Internazionale comunista e al Pcdi. Anche Nenni, che in gioventù era stato repubblicano, apparteneva alla corrente massimalista. Ma la sua leadership venne sancita da una scelta autonomista. A Parigi, nel 1930, compì la seconda scelta politica di respiro autonomo, cioè la riunificazione col Psu riformista di Turati. A quell’operazione significativo fu il contributo di Giuseppe Saragat che nel 1922 aveva aderito al partito di Turati, Treves, Matteotti e Prampolini. A quell’unificazione si sottrassero invece i massimalisti che facevano capo ad Angelica Balabanoff, che poi saprà ravvedersi e aderirà, nel gennaio del 1947, alla scissione di Saragat.
Nenni fu poi il principale promotore del patto di unità d’azione tra socialisti e comunisti, che seguiva, nel 1934, quello sottoscritto dai due partiti francesi. Questo soprattuto in funzione antifascista. Nella guerra di Spagna partì volontario, come Rosselli, a difesa della repubblica, e comprese l’importanza, come lo stesso Saragat, dell’appoggio sovietico, mentre le democrazie occidentali, Inghilterra e Francia, stavano con le mani in mano. Seppe condannare però i processi staliniani del 1938, ma l’anno dopo rimase sconcertato dal patto Ribbentrop-Molotov e venne messo sotto dall’ala autonomista di Tasca e Saragat, che ruppero il patto coi comunisti, che avevano naturalmente appoggiato l’alleanza sovietico-nazista. L’operazione Barbarossa lo resuscitò come leader politico. Riprese le redini del Psi in Francia, poi, dopo la caduta del fascismo, tornò in Italia. Fu confinato a Ponza, dopo l’invasione tedesca rischiò anche di essere deportato in Germania, ma pare che in sua difesa sia sceso in campo lo stesso Mussolini, poi, dopo la liberazione, rilanciò il partito che si chiamò Psiup, perché univa al tradizionale Psi anche il Mup di Lelio Basso.
Nell’aprile del 1946 il Psiup conquistò il 20,6 per cento dei voti, più del Pci, che si fermò poco oltre il 18. E fu una piacevole sorpresa. Poi la cacciata dei comunisti dal governo e l’inizio della guerra fredda convinsero lui e Morandi a stringere ancora di più i legami col Pci. Nel gennaio del 1947, dopo un dilaniante congresso, Saragat e gli autonomisti lasciarono il Psiup, che poi si chiamerà ancora Psi, e fondarono il Psli, che nel 1952 acquisirà il nome di Psdi. Nacque, più per volontà sua che di Togliatti, il Fronte popolare che nel 1948 andò incontro a una sconfitta clamorosa e dentro il fronte ancor più clamorosa fu la sconfitta dei candidati socialisti. Nenni cambiò idea nel 1956 dopo il XX congresso del Pcus e le denunce dei crimini dello stalinismo e aprì gli occhi con l’invasione dell’Ungheria dell’autunno di quello stesso anno. Togliatti invece preferì tenerli chiusi. Si aprì la fase dell’autonomia socialista col congresso di Venezia del 1957. Nenni voleva subito la riunificazione con Saragat, ma la sinistra filocomunista glielo impedì. La riunificazione socialista avverrà solo dieci anni dopo, nel 1966, e andrà incontro a una nuova sconfitta con le elezioni del 1968.
Intanto la maggioranza autonomista di Nenni aveva aperto il dialogo coi cattolici e con la stessa Dc, che produrrà prima il governo delle convergenze parallele dopo la nefasta esperienza tambroniana del 1960, poi la maggioranza fanfaniana di centro sinistra, infine il governo organico, presieduto da Moro nel dicembre del 1963. Per questo la sinistra di Vecchietti e Valori se ne andò, nel gennaio del 1964, formando il Psiup, con finanziamenti sovietici. Dopo la nuova scissione socialista del 1968, Nenni si ritirò a Formia, ma non per molto. Fu ancora presidente del Psi dopo il congresso di Genova del 1972 con De Martino segretario e Craxi vice, che rilanciò il governo di centro sinistra, dopo i due anni del governo Andreotti-Malagoli. Poi appoggiò il suo delfino Bettino Craxi alla segreteria del partito fino alla morte.
A suoi funerali, nel gennaio del 1980, ove si affollarono decine di migliaia di socialisti convenuti d’ogni parte d’Italia, Craxi volle commemorarlo con un “Ciao Nenni”, che era il saluto di un compagno durante la guerra di Spagna. Nenni fu a lungo anche direttore dell’Avanti. Seppe comunicare come pochi, con una prosa semplice, diretta, efficace. Grande giornalista, dotato della rara dote della sintesi, sapeva trasmettere la politica con slogan che anticipavano l’azione. Dalla Costituente o il caos, all’ora dei socialisti, al dialogo coi cattolici, a quel “Tutta Varsavia sapeva e nessuno parlava” a proposito dello stalinismo. Fino all’alternativa democratica e alla stanza dei bottoni. In fondo non c’è scelta politica italiana che non abbia risentito delle scelte di Nenni e delle sue parole d’ordine. A volte sbagliate. Più spesso giuste e anticipatrici di scelte altrui, troppo spesso per anni contestate e anche vilipese. Per poi essere riscoperte, rivalutate e rilanciate con decenni di ritardo.
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