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I socialisti nel dopoguerra (quel che ho tentato di dire a Bari)

2 Luglio 2017 807 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Nel mio intervento a Bari sul 125esimo della fondazione del partito socialista, nell’ambito del confronto sulla fase repubblicana ho tentato di tratteggiare tre fasi: la natura del partito che rinasce a cavallo della fine del fascismo, la svolta del 1956 coi progetti dell’unità socialista e del centro sinistra, i successi e la crisi del Psi di Craxi.

Il partito socialista che rinasce dopo la caduta del fascismo non é il Psi massimalista che si era frantumato nel 1924 tra l’adesione al Pcdi in nome della terza internazionale di Serrati e il diniego alla “liquidazione sottocosto” proclamata da Pietro Nenni. Non é neanche il Psu riformista fondato nel 1922 dopo la sciagurata espulsione dal Psi di Turati, Treves, Matteotti e Prampolini a pochi giorni dalla marcia su Roma. Ma non é neanche il partito che a Parigi nacque dalla fusione dei due tronconi, con l’eccezione del gruppo di Angelica Balabanoff che uscì nel 1930 da sinistra per convertirsi poi all’autonomismo e uscire da destra a Palazzo Barberini. Il partito che rinasce é un partito che aggrega sostanzialmente tre gruppi: i vecchi socialisti in esilio, da Nenni e Saragat agli altri, i socialisti che già nel 1942 avevano rifondato a Roma il Psi, tra i quali Vernocchi, Lizzadri, Romita e il gruppo del Mup di Lelio Basso. Dalla fusione del Psi e del Mup nasce il Psiup nell’agosto del 1943.

Tutti e tre i gruppi erano concordi sull’unità d’azione coi comunisti. Nel corso di una intervista a Mondoperaio Lelio Basso ricordò che Nenni, mirabile coniatore di slogan politici, condensava due politiche in due ricordi. Quando proponeva l’unità coi comunisti ricorreva alla suggestione che a lui procurò la visione dei due cortei, socialista e comunista, che si incontravano a place de la Batille al grido di unitè unitè. Quando proclamava l’unificazione dei socialisti ricordava quel giorno a Parigi con Turati quando i due partiti socialisti nel 1930 si riunificarono. Saragat, rispetto a Nenni, proveniva dal partito di Turati e nel suo esilio si era imbattuto nell’austro marxismo, una visione umanitaria dell’elaborazione del filosofo di Treviri. Tuttavia anche Saragat aveva firmato con Nenni e Pertini il patto del 1943. In una parte del partito forte era la tendenza a ritenere superata la divisione tra socialisti e comunisti (molto sentita era l’eco delll’epopea sovietica, della gloriosa battaglia di Stalingrado, dell’eroica resistenza al nazismo). Nell’estate del 1945 al primo Consiglio nazionale del Psiup venne gettato improvvisamente sul tavolo il tema della fusione ed emersero subito le divisioni di fondo. Saragat, Silone, anche Pertini, si schierano per la permanenza del partito, Basso e Morandi, più il primo del secondo, non escludono il partito unico. Nenni rinvia il progetto a “una prospettiva d’avvenire”, per sposare un gergo più recente.

Tuttavia il partito dell’immediato dopoguerra ritrova la sua unità sul tema della Costituente. I socialisti si tennero fuori dal secondo governo Bonomi che aveva ignorato la pregiudiziale repubblicana. E anche dopo la scissione del 1947 sul tema della laicità i socialisti si distinsero votando contro Articolo 7 della Costituzione. Entrambe le scelte avvennero in aperto conflitto coi comunisti, che con la svolta di Salerno di Togliatti avevano legittimato la monarchia su ordine di Stalin e votando l’articolo sette pensavano di evitare rotture nel rapporto con la Dc. In realtà io trovo che l’una e l’altra siano state in una certa misura scelte naturali e compatibili con una identità storicamente insensibile al tema istituzionale e alla laicità dello stato. Queste scelte arretrate, sui temi della riforma istituzionale e più ancora sulle leggi di laicità, si manifesteranno anche in epoche più recenti.

Io non voglio emarginare dal ricordo figure come Morandi e Basso, che non rappresentano la mia storia, che certo non sono mai stati miei punti di riferimento. Ma che hanno segnato la vicenda del Psi per oltre un decennio con la presenza di due personalità di forte impatto culturale. Resto tuttavia convinto che durante l’epoca degli anni quaranta, la personalità di spicco, la più profetica, sia stata quella di Giuseppe Saragat, il primo a sinistra che s’accorse del carattere totalitario del sistema sovietico. Oggi tutti o quasi tutti lo riconoscono. Per anni la definizione di socialdemocratico era sinonimo di tradimento, un’ingiuria che in molti hanno dovuto sopportare. Oggi siamo al paradosso che socialdemocratico è diventato un aggettivo per denotare caratteristiche eccessivamente spostate a sinistra, quando non superate dalla storia recente. Insomma mai una volta che comunisti, post comunisti, neo democratici si siano incrociati con la socialdemocrazia. Un destino fatale…
Così é nella sinistra italiana dove per non riconoscere i torti di ieri si spazzano via anche le ragioni. Cioè semplicemente si cancella il passato. Così spesso ormai anche la storia viene messa da parte, e manipolata, quando non anche ignorata.

Il punto d’approdo verso l’autonomismo di Nenni é il 1956. Dai primi anni cinquanta già il leader socialista parla di apertura a sinistra. In molti vociferano di operazione Nenni. A Torino nel congresso del 1955 il tema é il dialogo coi cattolici. Ma fino al 1956 l’iniziativa era subordinata al mantenimento di un rapporto di stretta collaborazione coi comunisti, i quali assecondavano i movimenti di Nenni. In qualche misura li sollecitavano. Ma Nenni non poteva sfondare se non rompeva coi comunisti. L’Ungheria fu la sua grande occasione. Prima c’era stato il ventesimo congresso del Pcus e la denuncia da parte di Kruscev dei crimini di Stalin. Nenni osservò già allora, nei primi mesi del 1956, che la denuncia al culto della personalità per essere credibile avrebbe dovuto investire il sistema. Poi nell’ottobre i socialisti furono a fianco degli insorti ungheresi, mentre Togliatti e il Pci appoggiarono i carrarmati. Ne nacque una divaricazione insanabile, che segnó anche la vita interna del Psi. Morandi era morto l’anno prima. I cosiddetti morandiani, che detenevano la maggioranza dell’apparato, si opposero alla revisione e in particolare all’idea di una unificazione col Psdi di Saragat che era stata ipotizzata dopo l’incontro di Pralognan dell’estate tra Nenni e Saragat. Al congresso di Venezia del 1957 Nenni fu maggioranza sulla linea politica, ma minoranza negli organi di partito, per una scelta alquanto imprudente di porre in votazione un’unica mozione e di votare unitariamente da parte dei delegati anche il nuovo Comitato centrale.

Con l’Ungheria si apre il lungo capitolo dei riconoscimenti postumi dei comunisti sulle ragioni del Psi. I comunisti arrivarono sempre con decenni di ritardo. Già Terracini aveva ammesso nei primi anni settanta che nel 1921 aveva ragione Turati, poi tutto il gruppo dirigente del Pci berlingueriano riconobbe che Nenni e non Togliatti aveva ragione nel 1956. Negli anni novanta Veltroni volle riconoscere, il paragone col governo dell’Ulivo era ingeneroso, che il primo centro sinistra aveva carattere di grande novità. I figli di Togliatti e più ancora quelli di Berlinguer hanno recentemente sconfessato anche le scelte del referendum 1985 e sull’azione militare Onu 1991. Potrei continuare nell’elenco. Dei riconoscimenti alla memoria nella memoria cancellata.

Mi soffermo sul carattere profondamente innovativo del centro-sinistra, che aveva il compito, nell’elaborazione molto avanzata e forse financo un tantino utopistica di Riccardo Lombardi, che presiedeva il comitato del programma socialista, di passare da un’economia capitalistica a un’economia di piano. Il tema di fondo era governare le grandi trasformazioni dell’Italia industriale, la sua modernizzazione in chiave riformista. I due governi Fanfani, resi possibile dall’astensione socialista, furono forse i più innovativi con provvedimenti come la nazionalizzazione dell’energia elettrica, l’introduzione della scuola media unica, la riforma agraria. Poi il centro sinistra organico a partire dal gennaio del 1964 e la contestuale scissione della sinistra filocomunista di Vecchietti e Valori che fondarono il Psiup, indi il percorso che dopo la presidenza Saragat portò alla unificazione socialista del 1966, al parziale insuccesso del 1968, alla nuova scissione del 1969. Al governo di centro sinistra vanno attributi anche altre grandi riforme quali lo statuto dei lavoratori, la riforma sanitaria fino all’istituzione del servizio sanitario nazionale, le regioni.

La fase di Craxi, anticipata dalle meravigliose conquiste sui diritti civili a cominciare dal divorzio e dal voto ai diciottenni, oltre che dal riconoscimento dell’obiezione di coscienza e poi dalla legge sull’aborto, rappresenta il tempo del nostro impegno. Inutile ricordare da dove si partiva. E cioè da quel “mai più al governo senza i comunisti” del 1976 che ci portò sotto le due cifre alle elezioni di quell’anno e in una condizione di gregariato nei confronti del Pci di Berlinguer, uscito trionfante dalle urne. Il Psi pareva solo un reperto archeologico. Asor Rosa propose di fare del Pci il partito che andava da Lenin a Turati. Arrivammo alla nostra più completa autonomia, al progetto socialista di Torino 1978, durante gli anni del terrorismo sul caso Moro elaborammo una linea diversa dal fronte della fermezza e della rassegnazione, riuscimmo nell’intento di eleggere un socialista, Sandro Pertini, alla presidenza della Repubblica, poi il progetto di Rimini, i bisogni e i meriti di Martelli, fino alla presidenza del Consiglio di Craxi, a Sigonella, alla scala mobile e al referendum vinto. Quante battaglie, i missili a Comiso, l’anticipazione della grande riforma, il saggio su Proudhon, la formazione di un apparato autonomista, di giovani preparati e appassionati che mancò alla svolta di Pietro Nenni ove all’iniziativa autonoma del partito faceva da contrappeso un apparato filo comunista. Spesso questa fase, in particolare quella segnata dalla presidenza Craxi, viene individuata come quella che ha permesso un alto incremento del debito pubblico. Voglio solo notare che la lotta all’inflazione fu vinta passando dal 16 al 4 per cento e con essa quella a un terrorismo che pareva eterno mentre il debito in rapporto al Pil si fermò sotto il 90 per cento contro il 133 attuale.

Poi l’89 e il nostro reflusso. L’incapacità di capire che un mondo era finito. Che lo stesso sistema italiano, che del dopoguerra era figlio, era al tramonto. Il crollo del muro e la fine del Pci, l’affermazione della Lega nel 1990, i referendum Segni, con quello sulla preferenza unica vinto già nel 1991, furono tutti fenomeni che il gruppo dirigente del
Psi non seppe leggere. Arrivò la sconfitta del 1992, prima della rivoluzione giudiziaria che ci aggredì e che segnò la nostra eclisse e con essa quella di tutti i partiti storici italiani.

Pur tuttavia mi sembra di una violenza senza pari la nostra cancellazione dalla storia, che ormai si protrae nei libri, negli articoli, nei telegiornali, nelle battute di molti politici di oggi. Lasciamo stare Di Maio, la cui ignoranza é pari all’inusitata ambizione di conquistare la presidenza del Consiglio. Parla di Berlinguer, la Dc e Almirante e noi lo ringraziamo per non essere considerati padri di tanta supponente incompetenza. Quanti padri. Già Veltroni con Kennedy, Mandela, o Renzi con La Pira, perfino Pisapia che cita Vittorio Foa che finì nel Psiup, o lo stesso Rossi che si ispira a Berlinguer anche se parla di socialismo, costruiscono un Pantheon che ci esclude. A proposito di Rossi pare che appena ha proposto di chiamare il nuovo movimento anche col nome di socialista sia finito in minoranza. De Gasperi, fieramente anticomunista é entrato da tempo, lo sfoganò per primo Occhetto, tra i padri nobili della sinistra, così come don Milani che nulla aveva a che fare col cattocomunismo, anche se Lettere a una professoressa, divenne il vangelo del 68, viene trattato alla stregua di un prete rosso scuro. Recentemente anche Falcone, martire della mafia, ma oggetto di clamorose scomuniche e persecuzioni dei magistrati comunisti, é stato eletto padre nobile della sinistra, disconoscendo il ruolo di difesa svolto dal ministro Martelli che lo sottrasse alle infide e gelose grinfie degli ermellini palermitani e dai ruvidi attacchi di Leoluca Orlando.

Storia e politica sono distinte mai come oggi. Prendiamone atto e non pensiamo di conquistare consensi attraverso la storia. Dobbiamo pretendere dalla politica però di non distorcere la storia, di non piegarla al proprio interesse. Di rispettare la meravigliosa storia del socialismo riformista e liberale, le uniche due versioni del socialismo ancora attuali. Le uniche due versioni del socialismo che salvano la sua storia dalle contaminazioni, deturpazioni, alterazioni che hanno gettato acqua infetta in quel vasto fiume che Turati paragonava al socialismo. E di non violentare la storia del Psi. Un nostro autorevole e oggi anziano dirigente di Bari, con l’erre roteante, mi disse durante Tangentopoli: “Fra un po ci chiederanno di vergognarci non già dei nostri errori, ma delle nostre ragioni”. Mi sembra che questo sia avvenuto. Da venticinque anni manca l’erede del Psi nella seconda repubblica. Dc e Pci ne hanno avuti più d’uno. E se manteniamo ancora in vita questa organizzazione di socialisti non è perché pensiamo di rifare un partito che, come Dc e Pci, non esiste più dal 1993. Ma perché da nessuno dei partiti di oggi ci sentiamo rappresentati. Pare siano tutti alberi senza radici o con radici altrui, anche il Pd che pure é socialista, ma solo in Europa. Siam fiigli della storia più antica, ma senza eredi. Una sorta di incapacità di procreare. Ma la nostra sterilità é un dramma non solo per noi. Senza le nostre radici molti alberi stanno crollando e non basterà una superficiale manutenzione per farli rifiorire. Eppure in Europa, penso alla vicina Francia, emergono nuove e interessanti tendenze. Io vorrei che noi per quel poco che possiamo fare potessimo contribuire alla nascita di una nuovo progetto politico, che sappia distinguere il rispetto della storia e contemporaneamente il più ardito e innovativo progetto di futuro.

Personalmente non credo che questo progetto possa partire da una sinistra che vuol tornare al passato, alla sua meravigliosa e insostituibile funzione di opposizione, alle sue stravecchie parole d’ordine del giù le mani, alla sua purezza ideologica che sulle riforme sociali e istituzionali la rende conservatrice. Personalmente non attendo Pisapia né come l’oracolo di Delfo né come la Cassandra di turno. Penso alla sinistra riformista, o meglio al nuovo riformismo al quale manca ancora forse un contenitore politico con un Pd in crisi di identità e forse anche di guida. Che la classe politica oggi manchi di un riconoscimento di base, di un territorio, lo provano le recenti elezioni. Renzi ha perso a Rignano come Bersani ha perso a Bettola, come Orlando ha perso a La Spezia e Guerini a Lodi, mentre il mio amico Delrio ha perso a Campegine, il comune piû rosso d’Italia, e il governatore dell’Emilia-Romagna, eletto col 37 per cento dei votanti, ha perso sei ballottaggi su sei. L’impressione é che siano stati sfondati tutti gli zoccoli. E in particolare che sui temi della sicurezza e dell’immigrazione il popolo italiano stia sposando altre ricette. Rischiamo di non capire più i problemi di fondo degli italiani. Noi non possiamo risolverli mettendo a disposizione la nostra storia e la nostra debolezza elettorale. Dobbiamo invitare gli altri a comprenderli e ad affrontarli. Per evitare che vincano populisti e demagoghi, improvvisati dottori che rappresentano la malattia. Perché il rischio non é quello di far finire la storia socialista o la storia tout court come vaticinò un filosofo giapponese dopo la fine del comunismo. Il rischio é che il mondo nuovo, parafrasando all’incontrario l’ottimistica previsione del leopardiano venditore di Almanacchi, sia assai peggiore del mondo di ieri.

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