L’Italia (non) s’é desta
Non andremo ai mondiali russi. Non é la notizia peggiore, ma é pur sempre una sventura (senza usare una perifrasi) italiana. Non é un grande problema, ma non si vive solo di quelli. E fortunatamente. Se no dovremmo avere sempre pessimi umori. Non è la morte, la guerra, la fame, il terremoto. Ma è un’emozione. Opposta a quella che ci ha attraversato come un fremito quando, nel 1982 e nel 2006, dopo la vittoria dei mondiali, abbiamo invaso le nostre piazze manifestando gioia incontenibile e sventolando il nostro tricolore. Ricordo bene quando, dopo quell’Italia-Germania 4 a 3 di Messico 70, anche i sessantottini si trovarono uniti a inebriarsi in quella notte di quasi campioni.
E ricordo quando più o meno gli stessi, diventati adulti, gioirono dopo il gol di Bettega all’Argentina in quel 1978 bagnato dal sangue del terrorismo in Italia e della spietata dittatura di Videla a Buenos Aires, che ci sfuggì. Poi il Mundial spagnolo col rinato Pablito che fece piangere i miti brasiliani e le notti magiche con Roma che brulicava di passione e di vino nelle trattorie del centro. E quella delusione ai rigori con Napoli divisa tra l’amore per Maradona e per l’Italia. E i rigori maledetti che ci tolsero la Coppa in America, poi le delusioni in Francia e in Corea, complice un arbitro corrotto di nome Moreno. Fino al trionfo, in piena Calciopoli, in Germania, con Zidane e la sua gradita testata.
Ma soprattutto ricordo le due ultime eliminazioni al primo turno in Sudafrica e in Brasile e la retrocessione dell’Italia da testa di serie a numero due, tanto da farci tremare al pensiero di dover battere la Spagna per qualificarci ai mondiali di Putin. Presuntuosi e mediocri abbiamo anche solo evitato di concorrere e sapevamo, dopo la batosta di Madrid, che avremmo dovuto spareggiare. Si pensava: va bene la Svezia, poteva andar peggio. In effetti gli svedesi sono poca cosa, anche se dotati di fisico, di grinta, di muscoli. Ci si è messa anche la sfortuna, anche un arbitro semi cieco, anche un autogol. E per un autogol siamo finiti fuori, fuor dai mondiali, fuori dalle nostre progettate e immancabili emozioni estive. Dai nostri barbecue e pizze cogli amici.
Siamo stati privati di un’attesa. I mondiali russi li vedremo con distacco. Non accadeva dal 1958 quando l’Italia degli oriundi (Ghiggia, Schiaffino, Montuori e Da Costa) venne eliminata dall’Irlanda del nord che sapeva lottare non solo per la sua indipendenza. Inutile girarci attorno. E’ peggio della Corea del 1966, che almeno ci regalò la rinascita col blocco degli stranieri. Non diremo “Svezia” a Ventura perché si tratta di un paese che ci ha regalato campioni (Hamrin, Liedholm, Skoglund, Green, Nordhal) ma assai datati e stimolanti e emancipate bionde da urlo. Basta ricordare che i campioni non nascono neanche da noi. Non ci sono più i Baggio, ma neanche i Totti, i Del Piero, i Pirlo. Non bastano undici bravi giocatori, senza fantasia, che non sanno mai saltare l’uomo. Non bastano tanti passaggi in diagonale e all’indietro.
Via tutti, adesso. Via Ventura, che non ha saputo organizzare un gioco, passando da uno schema all’altro, da un giocatore all’altro, da una sostituzione e da un’esclusione all’altra, via Tavecchio, presidente di una Federazione che ha fallito, figlio di giochi interni, di calcoli e di ambizioni. Ci pensi Malagò a usare la scopa. Si riparta dall’unico che ha saputo cavar succo e cioè da Antonio Conte. Si progetti subito una regolamentazione degli stranieri, si usino più italiani con un minimo fissato, si riduca la serie A a sedici squadre, si potenzino i vivai, si investa in infrastrutture e si adotti per gli stadi il modello inglese (siamo quasi ultimi anche come numero di presenze allo stadio). In un’ Italia che aumenta di Pil la metà dell’Europa, anche con lo sport (ricordiamo le cocenti delusioni nel basket e nell’atletica) siamo in linea. Perché stupirsi?
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