La tragedia di via Turri e noi
Nessuno deve speculare sulla tragedia di via Turri. Giusto stare dalla parte di due ragazzi che hanno perso i genitori, di una famiglia preoccupata per la gravità di condizioni della loro bambina, di tutti gli altri feriti e intossicati, di coloro che hanno perso una casa e un tetto. Tutti uniti per risolvere questi problemi, dunque. Senza rinunciare però a qualche doverosa riflessione, che si deve a coloro che non ci sono più e potevano esserci ancora, a coloro che soffrono nei letti d’ospedale e potrebbero invece stare con le loro famiglie, a coloro che hanno perso tutto e potevano restare tranquilli nei loro appartamenti. Prendo atto di quel che ha assicurato il vicesindaco Matteo Sassi, persona che stimo, e cioè che i controlli, anche sulle cantine da dove pare si sia verificata l’esplosione e sia iniziato l’incendio propagato nell’intero edificio, sono stati frequenti e anche recenti. Ma se una famiglia viveva in uno scantinato é evidente che tali verifiche non sono state sufficienti. Tuttavia la situazione di degrado di via Turri era nota da tempo. Sono ormai quindici anni che se ne parla. Personalmente mi occupai della questione da giornalista quando intitolai una trasmissione del 2004 su Teletricolore proprio “Il Bronx di Reggio” e quando, più volte, sia pure da assessore allo sport, feci pressione sull’allora assessore all’immigrazione per svolgere un censimento per verificare le condizioni di vita dei migranti che abitano nella città storica, spesso in immobili degradati e con affitti in nero per arricchire i proprietari. In quella zona si sono concentrati un numero massiccio di immigrati che ne rappresentano la stragrande maggioranza. Numerosi e lodevoli sono stati gli interventi volti alla socializzazione, alla ricreazione, anche all’estetica di questa via. Ma alla base di tutto vi é un errore profondo. E cioè quello di accettare la creazione di un quartiere ghetto, dove le famiglie che provengono principalmente dall’Africa (regolari immagino, ma tutte?) possono star da sole, costruire un’isola senza possibilità di integrazione reale, vivere la loro vita senza reali contatti con gli altri e coltivando le loro abitudini. L’errore é quello di non comprendere che i nostri ospiti che provengono da paesi lontani vanno seminati a gruppi in tutte le zone del Comune, e che solo questo evita una contrapposizione secca di due culture diverse, favorendo una più facile compenetrazione di stili di vita, di comportamenti, di valori. Questo rende peraltro assai più semplici i controlli su abusi e illegalità. Mi spiace che proprio a Reggio Emilia, una città nota in tutt’Italia per la sua tradizione di accoglienza e di ospitalità sia potuta accadere una vicenda così triste e drammatica.
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