Il caso Battisti tra giustizia e ossessioni
Quando il padre lo volle chiamare Cesare aveva probabilmente nella memoria quel Cesare Battisti, eroe nazionale e socialista trentino, che combatté nella prima guerra mondiale, fu fatto prigioniero e impiccato al Castello del Buonconsiglio dagli austriaci. Eppure il figlio maturò ben altri ideali e si convinse, nei turbinosi anni settanta, della necessità della lotta armata, entrò in un’organizzazione terroristica vagamente dipinta di rosso che si macchiò di orribili omicidi. Il giovane Cesare fu condannato all’ergastolo per partecipazione diretta a due omicidi e per concorso negli altri due e riuscì a fuggire all’estero dopo una prima condanna a 12 anni per banda armata, contrariamente a molti suoi compagni che espiarono la pena con anni di dura galera in Italia. La sua fuga dalle responsabilità fu un atto meschino, al pari di altri (molti sono ancora latitanti all’estero), che non diede risposta al bisogno di giustizia che promanava soprattutto dalle famiglie delle vittime, e in particolare da quel ragazzo che per causa sua perse il padre e rimase condannato alla sedia a rotelle a vita.
Anche noi celebriamo dunque il suo arresto, dopo il suo ennesimo espatrio dal Brasile alla Bolivia, come un atto dovuto di un paese che deve far rispettare le sue leggi, quelle di una democrazia che deve saper scovare i colpevoli dei delitti, soprattutto i più gravi, in qualsiasi parte del mondo essi siano rifugiati. Ci sono solo due “però”, che vorrei qui aggiungere con molta chiarezza e sapendo subito che saranno giudicati tutt’altro che popolari. Premetto che fin dall’inizio della mia attività politica ho decisamente combattuto, da riformista ante litteram e mentre molti di coloro che oggi fanno la voce grossa flirtavano con l’estremismo violento, tutti i gruppi che inneggiavano prima a parole e poi coi fatti, alla lotta armata, come se l’Italia fosse una repubblica militare sudamericana e non una democrazia imperfetta dell’occidente europeo.
Ho combattuto sul versante del socialismo democratico, fin dai banchi dal Liceo, tutte le false infatuazioni della mia generazione, ben sapendo che a forza di identificare l’Italia come fascista, golpista, corrotta, qualcuno ne avrebbe tratto logiche conseguenze, come poi avvenne con le Bierre, le “sedicenti” Brigate rosse, perché, si diceva, il terrorismo é solo nero, e poi con altri nuclei armati compreso quello di Cesare Battisti, i Pac, Proletari armati per il comunismo, artefici di almeno quattro delitti infami, Prima linea e altri. Il primo “però” riguarda il tanto tempo trascorso. Cesare Battisti é distante 40 anni da quei delitti. Non sarebbe giusto che il tempo attenuasse la sua pena, ma questa sua trasformazione da terrorista a scrittore, questa sua adesione alla dottrina Mitterand e cioè alla condanna della lotta armata e al rispetto delle leggi della Repubblica francese, e infine la formazione di una famiglia, col piccolo figlio che nulla sa del suo passato, vorrei che qualcosa contasse oggi, soprattutto nel modo in cui verrà gestita la sua lunga detenzione.
La sua famiglia, suo figlio, avranno la possibilità di sviluppare rapporti con lui, potrà egli, e in che modo, continuare ad essere marito e padre? Anche perchē se il carcere ha soprattutto valore di rieducazione, qualcuno dovrà pur certificare quanto del giovane criminale ancora sopravviva nell’anziano padre di famiglia. E prenderne atto. Il secondo “però” riguarda una affermazione di Salvini, il quale, dopo aver ringraziato il nuovo presidente del Brasile, quel Bolsonaro che rimpiange la vecchia dittatura militare, ha testualmente affermato che Battisti “deve marcire in carcere”. Oltre a non conoscere le finalità che le leggi, anche la Costituzione, attribuiscono alla detenzione, Salvini vi aggiunge, e parliamo del ministro degli Interni, addirittura la necessaria marcescenza di un detenuto. Questo è inaccettabile e fa venire alla mente altri periodi del più buio giustizialismo italiano, quando qualche piemme invitava gli inquisiti a parlare altrimenti avrebbe gettato nell’immondizia la chiave del carcere. Un brivido alla schiena mi percorre quando ascolto nuove parole di grezza acidità che offuscano non solo qualsiasi sentimento di umana pietà per i detenuti, ma anche la più palese distorsione del significati e dei fini delle nostre leggi.
Nessun detenuto nelle spesso obsolete e sovraffollate galere italiane deve marcire, anche se oggi il rischio, a prescindere dai desiderata del ministro degli Interni é proprio questo.
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