Magistrati sull’orlo di una crisi di nervi
Ricordo bene il tempo in cui alla magistratura era stato affidato un potere catartico. Era il 1992 e iniziava l’opera purificatrice di Mani pulite. Il sistema politico italiano non reggeva più, costoso e invadente com’era, alla caduta dei calcinacci del muro di Berlino e alla fine del Pci e dopo i colpi inferti dall’avanzata leghista furono i magistrati a sferrare quello finale, reso immediatamente esecutivo dal referendum Segni contro il proporzionale. Di Pietro divenne l’eroe del fumetto italiano, amato, riverito e applaudito ovunque si trovasse, dal ristorante alla barberia. Le sue insufficienze grammaticali erano apprezzate perché considerate alla stregua di quelle dell’uomo di strada. L’aristocrazia politica fu decapitata, distrutta, vituperata e il vecchio sistema raso al suolo affinché, come affermò il capo del Pool Borrelli:”Ci si potesse cospargere il sale”.
Il rapporto tra magistratura e politica e tra queste e la pubblica opinione ha conosciuto fasi diverse e anche di tendenza contrastante. Diciamo che fino alla fine degli anni ottanta, se non proprio fino al marzo del 1992, le inchieste riguardavano sempre personaggi di non primissimo piano. Al massimo qualche ministro, ma si salvaguardavano i leader e i partiti politici. Tutti sapevano benissimo che i partiti si finanziavano irregolarmente e che i bilanci consegnati alla presidenza della Camera, come voleva la legge sul finanziamenti pubblico, erano falsi. Nessuno indagava a fondo per non lesionare il sistema politico democratico. Poi crollò la grande diga. Solo che anziché indagare a tutto campo i magistrati, uniti da un vero e proprio comitato o pool presieduto e diretto in tutta Italia dai magistrati milanesi, operò una scelta di campo. Evitò di colpire i partiti di opposizione e in particolare il Pci-Pds, perché l’azione giudiziaria necessitava di una copertura politica. Nessuno riuscirà mai a comprendere i sinceri pentimenti e il garantismo postumo di Luciano Violante se non lo mette in relazione con il suo ruolo nel bel mezzo delle indagini, per proteggere il suo partito e per assicurare l’appoggio all’azione della magistratura.
Una dabbenaggine fu quella compiuta dagli altri partiti che approvarono una legge di amnistia proprio nell’autunno del 1989 che cancellava il reato di finanziamento illecito e dunque quello dovuto ai corposi finanziamenti al Pci che provenivano dall’Urss e cosi ben documentati nel libro di Gianni Cervetti. Resta il fatto che, dopo gli anni della subalternità (l’eroe Di Pietro era solito intrattenersi nei locali milanesi coi suoi futuri inquisiti), arrivarono quelli del conflitto, che si basava su un duplice presupposto: la debolezza del sistema politico italiano del dopo ‘89 e la presunta purezza della magistratura. Difficile d’altronde pensare alla credibilità di un attacco alla politica corrotta da parte di un ceto ugualmente corrotto. E per di più che, contrariamente al primo, è messo in condizione di giudicare e condannare.
Vengono alla mente le canzoni d De Andrè sul giudice complessato che manda a morte con atteggiamento sadico. Eppure conoscevamo già allora (come Psi e Partito radicale avevamo promosso un referendum nel 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati) la situazione prodotta dalla divisione dei poteri ove quello giudiziario era l’unico privo di censura e in condizione di non pagare mai i suoi errori. Eravamo reduci dal drammatico caso Tortora. Il suo autogoverno attraverso il Csm generava una confusione tra inquirenti e giudicanti che in tutti gli altri paesi sono distinti, e attribuiva ai partiti dei magistrati, che sono tuttora organizzati come gruppi contrapposti o lobby e che lottizzano le nomine dei vari procuratori, un potere assoluto.
Perché dunque stupirsi di quel che già si sapeva? E cioè di un’ampia ragnatela di interessi e di pressioni, di prebende che giravano e continuano a girare per favori, nomine, promozioni, incarichi collaterali? Cosa c’é di nuovo sotto il sole? Quel che viene descritto minuziosamente attraverso le telefonate registrate dell’ex presidente dell’Amn e attuale membro del Csm Luca Palamara fa rabbrividire gli ingenui. Vacanze pagate, regalie (anche alle amiche), cene e tangenti per questo o quel favore. Pressione per le nomine degli amici e trame occulte per impedire quelle dei nemici. Palamara avrebbe messo a disposizione la sua funzione di membro del Csm, favorendo nomine di capi degli uffici cui erano interessati gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore, che hanno patteggiato per corruzione in atti giudiziari in una tranche dell’inchiesta sulle sentenze comprate al consiglio di Stato.
Interessante sono le rivelazioni sul caso di Perugia e le parole di Palamara: “Io a Perugia non c’ho nessuno, Chi glielo dice a quello lì di aprire un’indagine su Ielo?”. Il punto di appoggio di Palamara é un altro esponente del Csm, Luigi Spina e un imprenditore, Fabrizio Centofanti, e con gli avvocati Amara e Calafiore, tutti già indagati, costituivano un centro di potere. Salta fuori anche il nome di Paolo Ielo, ricordatelo, quello che definì Craxi “un criminale immatricolato”. Sentenziava di fronte al fratello avvocato sponsorizzato da un’azienda privata. Che bella compagnia. Un ritratto da basso impero di cui conoscevamo o quanto meno intuivamo l’esistenza. Dopo la fine di Di Pietro a seguito del reportage della Gabanelli sull’uso dei soldi del suo partito e sulla sua ingente proprietà di immobili (sapevamo anche dell’uso del suo amico avvocato Lucibello durante le indagini e della palese violazione della legge sul carcere preventivo utilizzato a fini di confessione, reato gravissimo), che dire oggi di questo quadretto di vita vissuta? Chi é senza peccato scagli la prima pietra? No. Qui le ferite e gravissime sono già state inferte. I sassi vorremmo tirarli noi. Forti.
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