Socialismo e socialismi
Già nel corso del suo lungo e travagliato passato la storia del socialismo ha conosciuto divisioni, contrapposizioni, deturpazioni e il mio libro “L’Unità…” (coi tre puntini di sospensione che ne contraddicono l’aspirazione) ha descritto il suo sviluppo. Dopo la vittoria della leader socialdemocratica danese Mette Frederiksen alle elezioni politiche, anche in base alla sua proposta sull’immigrazione, mi sono venute in mente tutte le divaricazioni che sui temi più importanti si sono verificate in passato e si possono registrare ancor oggi in campo socialista.
Lasciamo perdere quelle delle origini, con l’anarchismo e poi col sindacalismo rivoluzionario, ma sul comportamento attorno alla prima guerra i socialisti d’ogni paese si schierarono a difesa degli interessi di ogni singola nazione, tranne i socialisti italiani, che decisero l’espulsione del rivoluzionario Mussolini che sull’Avanti accennò alla possibilità di un appoggio alle nazioni dell’Intesa, e che si differenziarono dal Psri di Bissolati che fu invece dichiaratamente per l’intervento. Nel dopoguerra il conflitto fu tra chi voleva fare come in Russia senza se e senza ma (i comunisti puri), chi voleva fare come in Russia con se e ma (i comunisti unitari di Serrati) e chi preferiva fare come a Reggio e a Molinella (i riformisti). Un partito unico in poco più d’un anno si divise in tre. Due partiti, quelli dichiaratamente socialisti, si unificarono nel 1930 e si divisero nel 1947, si unirono ancora nel 1966 (ma a sua volta il Psi si era diviso nel 1964 con la scissione filocomunista del Psiup) per dividersi ancora nel 1969.
Mi fermo qui, ma negli altri paesi i socialisti, con l’esclusione della Francia che vide sorgere un forte partito socialista solo agli inizi degli anni settanta con la riunificazione di Epinay del 1969 e il lancio del nuovo Psf sotto l’egida mitterandiana, con l’esclusione di Spagna, Portogallo e Grecia, che vedranno la nascita di robusti partiti socialisti solo al termine delle dittature, scelsero un’identità dichiaratamente socialdemocratica e anti comunista. Anzi la presenza dei comunisti, che in Germania Ovest furono anche esautorati da qualsiasi incarico statuale (fatta evidentemente eccezione per quella spia che faceva da segretaria a Willy Brandt e allo sviluppo della sua Ostpolitik). era in tutte le nazioni europee quasi impercettibile. Che altro era l’eurocomunismo se non il riflesso del solo Pci berlingueriano contornato da partiti francese, spagnolo e portoghese ridotti all’osso? Poco più d’un’Araba fenice.
Oggi siamo di fronte a nuove, sostanziali, profonde divisioni. La globalizzazione e l’Integrazione europea, la stessa politica sull’immigrazione, non costituiscono materia di analisi e di proposta comune. Il caso Brexit, con l’appoggio determinante di Corbyn (oggi schierato su posizioni diverse, tanto da pretendere un nuovo referendum) ne é la testimonianza più lampante. Prendiamo i casi Fico e oggi Frederiksen e riflettiamo. Robert Fico aveva fatto in tempo (erano gli ultimi mesi del regime comunista cecoslovacco) a iscriversi nel 1989 al partito di Husak per poi fondare, dopo l’avvio della democrazia, un partito di sinistra che acquisì il nome di socialdemocratico, più precisamente “Direzione socialdemocratica”. Con questa identità nella nuova Slovacchia il partito socialdemocratico ha finito per allearsi coi partiti di destra, vincere le elezioni e diventare uno dei contraenti il patto di Visegrad. Recentemente l’europeista e democratica Zuzana Caputova ha sconfitto il successore di Fico, costretto alle dimissioni dopo le proteste popolari seguite all’assassinio di un giornalista e della moglie che seguivano un grave caso di corruzione.
Mette Frederiksem ha sbalzato i liberali dal governo danese, ma lo ha fatto brandendo anche (ma non solo) l’arma dello stop all’immigrazione clandestina. Leggo, spero siano forzature, addirittura della proposta di spostare gli irregolari su un’isola per tenerli lontani dalla popolazione regolare. La Danimarca conta circa su un 8% di immigrati, in piena media con gli altri paesi europei. Eppure l’intransigenza mostrata pare sia stata motivo di consensi massicci anche da chi, fino a ieri, aveva votato a destra. Lo dico a coloro che ritengono anche in Italia di vincere le elezioni con uno sconsiderato e impopolare spostamento a sinistra. Vorrei approfondire le posizioni del partito socialdemocratico danese sul tema dell’immigrazione, voglio augurarmi che non abbiano ceduto a estremismi e a discriminazioni persecutorie, ma che in Italia, nel centro-sinistra, si siano levate tante voci contro la politica del ministro Minniti la dice lunga sulla confusione e l’astrazione di un’area politica destinata a perdere per molto tempo ancora.
Resta tuttavia chiaro che in Europa, tra la Frederiksen e Corbyn, passando da Sanchez e Schulz, e sfiorando il Pd e i socialisti e i socialdemocratici portoghesi, si trovano differenze sostanziali. Pensate alla Francia dove il Psf pare quasi estinto e dopo l’infatuazione macroniana molti vecchi elettori socialisti sono rifluiti in un estremismo antieuropeista di sinistra (Malenchon) e di destra (Le Pen). E’ in fondo quel che è accaduto in Italia, dove le periferie povere votano a destra e i quartieri ricchi a sinistra. Il socialismo europeo, che ha ripreso recentemente quota, deve interrogarsi sulla sua identità, trovare qualche punto in comune non solo nella difesa dello stato sociale, allargarsi a tendenze liberaldemocratiche ed ecologiste, fare proprio anche il tema della sicurezza e della lotta alla clandestinità, lanciare la sfida degli anni venti. Senza idee unificanti rischia di perdere anche quando vince.
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