Responsabilità e irresponsabilità
Ho seguito attentamente la discussione sul dramma coronavirus e sui decreti del governo alla Camera e al Senato. Ho letto la dichiarazione di Mario Draghi, a cui i giornali hanno riservato ampio spazio, ripresa nell’intervento di Salvini. Ho seguito anche le polemiche sulla gestione delle risposte sanitarie in Lombardia e altrove, nonché le inflessibili posizioni assunte dal governatore della Campania De Luca e da un suo omonimo sindaco siciliano che le ha condite con un eccesso di esibizionismo. Da tutto questo ho tratto la consapevolezza che il senso di responsabilità a fronte di una tragedia siffatta, il sentimento patriottico di cui tutti professano vanto, il declamato amore verso chi é in trincea, medici, infermieri, personale parasanitario, ma anche infermieri, vigili urbani, polizia carabinieri, operai e contadini che devono garantire la filiera sanitaria e alimentare, non si sia sempre tradotto in capacità di unione nazionale. Leggo, ad esempio, contro l’assessore Gallera della Lombardia dichiarazioni fuori luogo degli esponenti del Pd lombardo. Gallera viene accusato di strumentalizzare il suo ruolo esponendosi troppo per preparare la sua candidatura a sindaco di Milano tanto che il segretario del Pd milanese Silvia Roggioni afferma: “Altro che candidatura, ci vorrebbero le dimissioni”. E accuse anche da parte di altri esponenti dell’opposizione lombarda, dal consigliere Pietro Bussolati, all’europarlamentare Massimo De Rosa. A livello nazionale non si contano le critiche anche dure e sprezzanti da parte di esponenti di Lega e di Fratelli d’Italia nei confronti del governo. Dalle offese della Meloni al pollice verso decretato da Salvini, che ha accusato il governo di essere, a giorni alterni, o troppo permissivo o troppo repressivo, di non stanziare 25 miliardi e poi di non trovarne 35 e infine, alzando sempre l’asticella, individuando sempre nuovi motivi di polemica. Nella discussione parlamentare mi sono parse tutto sommato positive le dichiarazioni di tutti i rappresentanti i vari gruppi tranne quelle di uno, al Senato. Un ragazzo (oddio deve avere quarant’anni, ma oggi a questa età si é ancora giovani, anzi giovanissimi) coi capelli lunghi, con vaga sembianza da orchestrale beat anni settanta, si é fatto avanti chiamato a parlare a nome dei Cinque stelle, partito di governo e di maggioranza. Senza avvertire alcuna emozione per l’aula cosi densa di storia e di gloria, come quella del Senato, costui ha sfoderato una serie di attacchi alzo zero ai partiti di opposizione, fuoriuscendo bellamente dal clima da argine all’assalto alla diligenza che si era generato e che la presidente Casellati ha degnamente rappresentato nel suo solenne discorso conclusivo. Questo quarantenne immaturo, soprattutto politicamente, ma anche umanamente, ha alzato la voce come se un’Aula del Senato, chiamata in un momento di emergenza nazionale e nel bel mezzo di lutti e dolori seminati ovunque, fosse un’assemblea universitaria, sempre applaudito “ad vociferationes” dai suoi. Penso che alla base di questo ci stia una assenza di percezione del luogo, del tempo, ma anche del ruolo. Cioè in fondo una carenza culturale di fondo. Vorrei invitare questo senatore, come un po’ i suoi compagni, a riflettere sul modo in cui i partiti di governo della cosiddetta Prima Repubblica affrontavano le critiche delle minoranza e il grande rispetto che costoro nutrivano per le occasioni di alto significato nazionale. Mai avrete registrato da un democristiano o da un socialista non dico un’offesa, ma neppure una accusa digrignando i denti rivolta per di più a un’opposizione che, almeno in questa circostanza, manifestava la sua volontà di collaborazione. Un grande esempio mi viene anche dal Pci, dagli amministratori e dai consiglieri comunali della mia città che andavano alla ricerca, per valorizzarlo subito, del più timido segnale di disponibilità delle minoranze. Uno stile unico. Sempre a bassa voce. Perché anche il suono della voce rappresenta una forma di fare politica. E diventa sostanza. E che, rapportato a questo schizofrenico modo di discutere, mi fa rimpiangere non solo Craxi e Andreotti, ma anche Berlinguer e il sindaco Ugo Benassi di Reggio Emilia.
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