Il presidenzialismo nuova bandiera socialista
Nell’editoriale di oggi sul Corriere della sera Galli della Loggia individua bene le cause della perdita di peso e di autorevolezza della politica. Parla della politica organizzata secondo forme tradizionali, con sezioni, federazioni, comitati regionali, organi nazionali. E la trova soprattutto in tre riforme, tutte volute dalla sinistra, che hanno indebolito il loro potere politico dei partiti. Mi ero permesso di sottolinearle nella conferenza programmatica del Psi (tenevo la relazione introduttiva assieme a Luigi Covatta). La prima é certamente quella del 1993 relativa all’elezione diretta dei sindaci, che attribuiva loro poteri straordinari come quelli di scegliersi le giunte con persone estranee ai Consigli comunali, e incompatibili con la funzione congiunta di consiglieri. Questo ha finito per svuotare completamente l’unico ente elettivo assieme al sindaco, il Consiglio, di qualsiasi funzione, che non sia quella della votazione del bilancio e poco altro. Anche le nomine nelle partecipate sono attribuite ai sindaci, i quali possono anche ritirare le deleghe agli assessori senza neppure motivarlo di fronte alla giunta o al consiglio. Non basta. E qui Galli della Loggia si dimentica di un ulteriore passaggio, frutto della legge Bassanini e cioè quello relativo al trasferimento di poteri più clamoroso: quello dagli organi politici a quelli amministrativi. I dirigenti comunali si sono trasformati in decisori pubblici, a loro sono affidate le firme della maggior parte di delibere o determine, che siano, e a loro viene attribuita anche la responsabilità personale delle stesse. Dunque il sindaco é divenuto organo monocratico, senza possibilità di condizionamento politico, la giunta é scelta da lui stesso e non dal Consiglio e quest’ultimo é svuotato di qualsiasi competenza reale, mentre i dirigenti hanno gran parte del potere che era riservato agli assessori. Cosa volete che contino i partiti comunali, non dico quelli provinciali visto che la legge Delrio ne ha abolito l’unico organo elettivo, il Consiglio, facendo diventare le province enti di secondo grado con scarsissime risorse a disposizione, per la maggior parte riservate al pagamento del personale. La legge del 2003 relativa all’elezione diretta dei presidenti delle regioni ha quasi completato il cerchio. I presidenti diventano governatori, scelgono direttamente come i sindaci le loro giunte, nominano chi vogliono negli enti senza passare dal Consiglio, che viene svuotato di larga parte delle competenze tradizionali. Per di più, e così il cerchio é perfetto, la riforma del Titolo V della Costituzione, approvata dalla maggioranza dell’Ulivo, ribalta completamente i rapporti tra stato centrale e regioni definendo le poche competenze che restano al centro, le molte che vengono delegate alle regioni e quelle che vengono definite “materia concorrente”. Prendiamo la sanità la cui organizzazione era già regionale. Da allora anche le leggi nazionali diventano materia concorrente da concordare con le regioni. Per non parlare delle infrastrutture, che se sono regionali sono materia regionale e se sono interregionali vanno concordate con le singole regioni. Cosa resta allo stato centrale? Cosa resta ai partiti nazionali? Quello che manca alla giusta analisi di Galli della Loggia é una proposta per riequilibrare i rapporti. Certo oggi i sindaci contano assai più dei loro partiti di riferimento, i governatori contano assai più anche dei segretari nazionali dei partiti. Non a caso la candidatura di Zingaretti é uscita perché governatore del Lazio e quella, possibile, di Bonaccini perché governatore dell’Emilia-Romagna, mente il partito dei sindaci pesa nel Pd molto più della direzione. Evidente che serva un cemento nazionale unificante. Ancora una volta bisognerebbe attingere dalla migliore elaborazione socialista degli anni ottanta, quando il vecchio Psi lanciò la riforma regionalistica dello stato legandola alla riforma presidenzialista. Oggi più che mai, anche per rilanciare una funzione nazionale dei partiti o di quel che resta di loro, il presidenzialismo é una necessità. Si tratti dell’elezione diretta del presidente della Repubblica in chiave francese o del presidente del Consiglio in chiave israeliana, occorre una figura rappresentativa a livello nazionale che interpreti la volontà popolare per cinque o sette anni non importa. E contemporaneamente serve un riequilibrio di poteri tra stato e regioni. La pandemia ha dimostrato che può essere perfino pernicioso questo assurdo frastagliamento di funzioni in ambito sanitario. Si cominci dunque a riportare la sanità sotto la competenza dello stato centrale. Sarebbe un primo passo.
Il tempo sdipana i rotoli più ingarbugliati.
Per il sindaco e i dirigenti, detti la colpa alla volontà, specie degli emuli del PCI, di togliere dai rischi del disinvolto amministrare i propri eletti.
Ma ad una riflessione più accurata giunsi a credere che in fondo tutto si riconduceva a quello che Gramsci chiamava “americanismo e fordismo”. Ci fu la corsa ad “americanizzarsi”, completata anche dall’uso – immediato – di chiamare “governatori” i presidenti eletti direttamente.
Nello sfondo, però, ci fu l’attacco alla vecchia classe dirigente post-bellica, resa molto debole dalla caduta dell’URSS.
Ora che dei partiti classici c’é rimasto. paradossalmente, solo quello che nel simbolo ha ancora la “fiamma” che emana dal feretro mussoliniano, pensare ad un presidenzialismo in Italia è molto poco conveniente se si crede di voler ritrovare qualcosa che ispirava il socialismo d’antan ed alla democrazia.
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