Un Boris maestoso
Il Sant’Ambrogio scaligero é evento culturale ma, per il risalto che storicamente gli viene riservato, anche mondano e politico. Due le annotazioni a latere. La prima riguarda la solita ricerca di visibilità di una protesta variamente organizzata e con propositi non certo univoci. Da un lato il comitato “No al carovita” che protestava contro il lusso (per primo cominciò Capanna e i suoi nel “meraviglioso” 1968), dall’altro la protesta dei Cobas e dei Centri sociali contro la “fascista” Meloni, dall’altro ancora gruppi di ucraini che ce l’avevano coi russi, in guerra e anche in musica. Anche dentro il teatro si erano verificate le solite tensioni con i rappresentanti delle maestranze che, dopo aver scioperato e fatto saltare la prima prova d’insieme del 29 novembre, avevano annunciato la lettura di un documento contro i tagli ai teatri. Lettura poi revocata. Dentro la sala, il solito club delle eccellenze nel palco reale, con l’annuale ovazione al ritrovato presidente Mattarella, posto al fianco della Von der Leyen, e all’altro lato una Meloni con lo spacco e i lumini nelle sopracciglia e un Ignazio La Russa che ancora non ci crede di essere diventato la seconda carica dello stato e sorride contento. Ammutolito di fronte al Boris come lo sarebbe stato dinnanzi a un documentario sui sassi di Sicilia. Anche il console ucraino si era lasciato andare in una fallace contestazione, subito rintuzzata dal presidente della Regione Fontana come se Modest Mussorgsy fosse responsabile dell’invasione all’Ucraina e i crimini di Putin offuscassero la genialità di Puskin. Meno male che nessuno ha mai pensato di abolire nei teatri del mondo Bach e Beethoven durante il nazismo o Verdi e Puccini durante il fascismo. Vere e proprie stupidaggini che rischiano di divenire pericolose. Ma veniamo all’opera. La scelta di Chailly di ricorrere al Boris la si deve a un filone di continuità col tema ricorrente del rapporto tra male e potere già presente nel Macbeth di Verdi, rappresentato nel Sant’Ambrogio scaligero dello scorso anno. E anche, forse, nello stretto rapporto che unisce Puskin a Shakespeare sullo stesso tema. Un rapporto certo coniugato con non marginali differenze. Macbeth é completamente nelle mani delle streghe che ne segnano il percorso poi interpretato nelle sue più malefiche conseguenze dalla Lady, Boris Godunov sceglie più razionalmente di ammazzare lo Zarevic, un bimbo di sette anni che avrebbe dovuto succedere allo zar Ivan, per potere accedere al trono. Non é posseduto da alcun essere infernale ma ispirato da un freddo e cinico calcolo. E poi in lui si avvertono i rimorsi e gli struggimenti che lo porteranno alla morte, che il regista mette in scena come regicidio, dopo una lunga confessione al figlio sul bene superiore della Russia. Nel Macbeth nessun pentimento, nessuna crisi di coscienza, ma solo la trasformazione della Lady e del marito in freddi e pilotati strumenti del crimine più razionale. Se per acquisire il potere é necessario ammazzare il re lo si ammazzi e se per mantener il potere é necessario uccidere Banco e suo figlio li si uccida (il figlio riuscirà a fuggire), se è necessario ammazzare tutta la famiglia di Macduff la si stermini, la moglie e suoi due figli “sventurati”. “Nuovo delitto? E’ necessario”, scandisce lei come un ritornello macabro. Nessun anelito di pentimento e di rimorso. Privi di un solo palpito che non sia l’ansia di conseguire e poi difendere il potere. Si annuncia per il prossimo anno una nuova opera con lo stesso tema, qui mescolato a quello dell’amore (il Boris fu subito osteggiato perché il tema non vi compariva e con esso una sola presenza femminile) e anche dell’amicizia, tra don Carlo e il marchese di Posa. Ma di questo ce ne occuperemo il prossimo anno. La Scala ha scelto di produrre l’opera nella sua versione originaria, quella del 1869, che erastata concepita in sette scene e che si scontrò con l’immediata censura del regime. D’altronde se pochi anni prima in Italia Verdi fu costretto a trasformare un re di Svezia in un governatore dello Stato di Boston, non c’è da stupirsi. L’opera fu poi edulcorata dallo stesso Mussorgsky nel 1884 e addolcita dal più melodioso Rimsky Korsakov nel 1896. La prima italiana, nella versione di Rimsky Korsakov, fu diretta da Arturo Toscanini, alla Scala, nel 1909 e celeberrima é la rappresentazione scaligera diretta da Claudio Abbado nel 1979. Musicalmente il Boris rappresenta una grande novità perché l’uso del cantato é indissolubilmente legato allo sviluppo orchestrale, e ai cori frequenti tutti legati alla tradizione russa. Si é scritto che in quest’opera degli anni sessanta dell’ottocento sono già presenti le tracce della musica di Stravinsky e del novecento. Particolarmente trascinanti sono il coro del primo atto, quando lo zar muore, poi quelli dell’incoronazione di Boris Godunov, la canzone dell’ex monaco ubriaco, quella dell’idiota, il gran finale della morte dello zar. La regia di Kasper Holten risalta sempre, e la mette quasi ininterrottamente in scena, l’immagine sanguinante dello Zarevic assassinato (anche se Puskin forse non tiene presente la storia reale che non attribuisce affatto a Boris la responsabilità della morte del figlio di Ivan). Poteva essere necessario o bastava un accenno? D’altronde in teatro un’emozione si deve rappresentare spesso attraverso un’immagine. Maestosa la prova del basso Ildar Abdrazakov. Un Boris interpretato a tratti con la potenza necessaria e a tratti con accenti soavi e malinconici. Lo attendiamo impazienti nella part di Filippo II. Bene tutti gli altri a cominciare dal Pimen, lo storico rivelatore che induce Grigory a fuggire in Polonia e a organizzare la rivolta mettendosi nei panni dello Zarevic redivivo. Applausi a Ain Anger e a Dimitry Golovmin che li hanno interpretati. Ineccepibile la direzione di Chailly e la prova dell’orchestra della Scala, così come quella del coro, anzi dei diversi cori, cioè del popolo che segue tutte le situazioni, ama tutti i sovrani, si scaglia contro tutti i ribelli fin che non prendono il potere. E s’innamora di chi parla “con arroganza”. Qualche riferimento all’oggi ci risuona nell’orecchio.
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