Matteotti un’icona del Pd?
Il fatto di avere convocato la segreteria del Pd a Riano, un paese della cintura romana dove venne ritrovato il cadavere di Giacomo Matteotti, deponendo un mazzo di rose ai piedi del suo monumento, per poi annunciare in seguito di voler fare di Matteotti un’icona del suo Pd, ci spinge ad alcune necessarie precisazioni sull’operazione politica di Elly Schlein. L’impressione che ha suscitato la decisione di svolgere a Riano la segreteria del Pd è che sia stata dettata dall’esclusiva volontà di rispondere al presidente del Senato La Russa e alla sua infelice frase sulla Costituzione non antifascista. Dunque di voler recuperare Matteotti come vittima del fascismo. Ma Matteotti fu anche altro. Fu un socialista riformista e democratico che seguì il destino di Turati, Treves, Modigliani, D’Aragona e Prampolini nella fondazione del Psu dopo la loro infausta espulsione dal Psi massimalista e filo comunista dell’ottobre del 1922. Di questo partito Matteotti divenne primo segretario nazionale. Per questo Antonio Gramsci, con un’alta dose di cinismo, arrivò al punto da definirlo, quando ancora caldo era il suo cadavere, “un pellegrino del nulla“, come ricorda nel suo bel libro il nostro Riccardo Nencini. Matteotti, che combatté a viso aperto il fascismo e fu perseguitato e anche aggredito nel suo Polesine, rispose in questo modo a una lettera che il gruppo dirigente del Partito comunista gli aveva indirizzato invitando il suo Psu a un fronte unico (pochi anni dopo, sempre su ordine di Mosca i comunisti si diedero a perseguitare i socialisti con la politica del socialfascismo e lo stesso Matteotti divenne per Palmiro Togliatti “nient’altro che un socialfascista”). Non c’è quindi nulla di comune tra noi e voi”, rispose Matteotti. “Voi stessi lo dite ogni giorno, anzi ogni giorno ci accusate di tradimento contro il proletariato. Se siete quindi in buona fede, è malvagia da parte Vostra la proposta di unirvi coi traditori; se siete in malafede, noi non intendiamo prestarci ai trucchi di nessuno. Perciò, una volta per tutte, vi avvertiamo che a simili proposte non abbiamo nulla da rispondere”. Dunque un po’ d’ordine nell’identità del Pd, cara Schlein, non guasterebbe. O ci si riconosce nella tradizione riformista e socialista democratica o in quella comunista, anche del comunismo italiano del quale fu espressione Enrico Berlinguer, che alla tradizione socialista riformista e democratica non volle mai collegarsi (al massimo si spinse a teorizzare una terza via, quella dell’eurocomunismo, tra socialismo reale e socialdemocrazia). E non a caso parlo di Berlinguer, tuttora il più richiamato e sacralizzato nelle sezioni del Pd. Se la Schlein facesse piazza pulita delle schegge di comunismo che sopravvivono nel Pd e anche dei minestroni di cattolicesimo dossettiano che confondono e deformano lo stesso messaggio di Aldo Moro e a radicarsi decisamente verso quella nostra stessa e feconda storia, non potremmo che essere contenti. Che la nostra identità, di noi reduci e trapassati, si estenda e si dilati, ci spinge anzi all’orgoglio e alla soddisfazione delle nostre ragioni. Se i riconoscimenti altrui sono sinceri e coerenti, ovvio. Come quello di Umberto Terracini, uno dei protagonisti della scissione del 1921 e della fondazione del Partito comunista d’Italia, che riconobbe che quell’operazione era stata un errore e che aveva ragione Turati. In molti nel Pd, ottenendo anche finanziamenti pubblici, hanno invece celebrato il centenario di quell’errore. E convivono con quanti hanno appartenuto a storie e identità opposte e il paradosso raggiunge l’apice quando si unificano le storie di De Gasperi e di Togliatti, avversari in vita e ora alleati da morti. Quanto c’entri la vicenda politica di Matteotti con quella di Landini e ancor più di Conte, é mistero che solo la segretaria del Pd può svelare. Così come lei stessa é oggi chiamata a svelare a quale identità il suo Pd si ispiri e quale sia la sua storia.
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