Il coraggio e la (quasi) verità di Fassino
E si alzò chiedendo di parlare nel bel mezzo dell’orgia populista che stava devastando la Camera. Lui, Piero Fassino, dirigente politico della Prima Repubblica, non ci sta. Addosso ai vitalizi, dice all’unisono il fronte di Fratelli d’Italia e Cinque stelle unificatosi nel nuovo gruppo Fratelli a Cinque stelle o Cinque stelle d’Italia. Non ci sta alla demonizzazione della politica concepita come spreco. Capisce che una democrazia parlamentare che s’accusa finirà prima o poi in macerie. Si alza con la sua ricevuta dello stipendio in mano di 4800 euro di entrate. Il populismo settario, di cui quest’oggi parla Galli della Loggia sul Corriere, non s’accontenta e pensa che siano fin troppi a confronto con lo stipendio di una badante, di un cameriere, di operaio generico, di un taxista meglio soprassedere. Perché un parlamentare deve essere paragonato non a un manager, a un professore universitario, a direttore di un quotidiano, ma appunto alle categorie più disagiate. A questo portano trent’anni di antipolitica e venti di populismo. Un parlamentare vale meno di una badante. A tutti a ridere e fregarsi le mani per la sintonia col peggiore istinto d’un italico vezzo. Fassino ha però commesso un errore. Lui sostiene che tiene per sé solo 4800 euro e gli altri li destina al partito e ai segretari. E gliene va dato atto. Ma un parlamentare tra indennità e rimborsi arriva oggi a circa 13mila euro. I Cinque stelle d’Italia, ci giurerei, se li intascano tutti. Alla faccia della lotta alle spese, quelle degli altri.
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