Il j’accuse di Matteotti
Era il 30 maggio del 1924. La Camera era chiamata ad approvare l’elenco degli eletti alla consultazione del 6 aprile, svolta con la legge Acerbo (alla maggioranza i due terzi degli eletti, alla minoranza un terzo da ripartire tra i partiti di opposizione). Dopo la strascicata lettura degli eletti da parte di un esponente della Giunta per le elezioni, si alzò a parlare l’on. Giacomo Matteotti, segretario nazionale del Psu, partito fondato dagli espulsi del Psi al congresso dei primi di ottobre del 1922. Espulsione dichiarata dalla maggioranza massimalista perché Turati e i suoi erano saliti sulle scale del Quirinale per tentare, formando un governo democratico, di bloccare l’avanzata fascista. Matteotti era un giovane deputato eletto per la prima volta nel collegio Rovigo-Ferrara nel 1919 e confermato nel collegio veneto nel 1921 e nel 1924. Aveva allora 39 anni, due in meno di Mussolini. Era infatti nato a Fratta Polesine nel 1885 da una famiglia benestante e si era laureato in giurisprudenza a Ferrara nel 1907 entrando subito in contatto coi movimenti socialisti giovanili (anche suo padre Girolamo era stato socialista e consigliere comunale di Fratta). Durante la prima guerra si mostrò convinto assertore della neutralità italiana e abbracciò le tesi antimilitariste che gli costarono un confino di tre anni in una zona della provincia di Messina. Giacomo sposò nel 1916 Velia Titta, sorella del famoso baritono Titta Ruffo e tra il ‘18 e il ‘22 la coppia ebbe tre figli: Giancarlo, Matteo, entrambi deputati socialisti e poi socialdemocratici nel secondo dopoguerra, e Isabella. L’attività parlamentare di Giacomo Matteotti, nel quinquennio, fu intensa e meticolosa. Studiava leggi, articoli, decreti, li emendava ne proponeva dei nuovi. Nel 1920 divenne segretario della Camera del lavoro di Ferrara. Dai suoi compagni era soprannominato Tempesta per il suo carattere battagliero e intransigente. Intuì tra i primi i pericoli del fascismo e scrisse un opuscolo nel 1920 intitolato “Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia”. Nel 1924 venne pubblicata a Londra l’opera sua “Un anno di dominazione fascista”. Cavaliere solitario, come l’ha definito Riccardo Nencini nel suo romanzo rievocativo, Matteotti, che considerava “la dittatura comunista la ragione della dittatura fascista”, sguainò la spada delle parole per denunciare le irregolarità e le violenze in cui le elezioni del 1924 si erano svolte e chiedendone l’invalidazione. Il suo famoso discorso provocò diverse interruzioni e minacce da parte dei deputati fascisti. E un richiamo del presidente che lo invitava a parlare prudentemente. Matteotti rispose: “Non parlerò né prudentemente né imprudentemente, ma parlamentarmente”. Poi espose una serie di casi in cui i candidati antifascisti furono minacciati, bastonati, feriti. Citò anche il caso di Antonio Piccinini, candidato del Psi di Reggio Emilia, rapito da casa sua e ferocemente ammazzato da una squadra fascista. E poi, sempre interrotto dai vari Farinacci e Teruzzi, declinò il clima generale di odio che si era creato e che impediva una regolare campagna, anche fondata sul contraddittorio, tra candidati di diverso orientamento. E annotò, provocando un deciso sì di Mussolini, che il governo se non avesse potuto governare col consenso avrebbe governato con la forza. Citando il ruolo della Milizia. “Vi é una milizia armata”, ricordò, “formata da cittadini di un solo partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato governo con la forza se ad esso il consenso mancasse”. Era il paradosso della democrazia e lo sfregio alla volontà popolare. Matteotti parlò e denunciò e accusò. Poi confessò a un collega di partito: “Io il mio discorso l’ho fatto. Voi preparare l’orazione funebre”. Cosa insegnano la figura e il sacrificio di Giacomo Matteotti? Innanzitutto Matteotti é un martire della democrazia (e, come si vedrà più avanti, anche della trasparenza e della lotta contro la corruzione a tutti i livelli) che si difende sempre anche quando si mette a rischio la vita. Poi che non importa essere pochi. Non importa essere soli. Se cento anni sono trascorsi e Matteotti é oggi celebrato da destra e sinistra, ed é più vivo che mai, ciò significa che il suo gesto ha seminato, a lungo, e ha raccolto ancora. Più forte dei vari miti che si sono susseguiti. Più forte del mito fascista che sarà travolto dalla guerra, più forte del mito rivoluzionario che s’imbatterà con la barba di Castro e le carneficine di Mao e di Pol Pot, più forte dei mito comunista che svanirà anche in Italia dopo il crollo del muro e dei regimi dell’Est. Resta di Matteotti quel suo riformismo padano intransigente nei valori di equità e di libertà (altro che “Pellegrino del nulla” come lo definí Antonio Gramsci su “Lo stato operaio” del 28 agosto 1924), quella sua sfrontata e diretta temerarietà che probabilmente Turati stesso gli aveva insegnato. Un laico religioso culto della verità.
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