Dopo il voto. La storia e la politica
Non ci si stupisca dell’astensione. Questo sistema politico italiano, definito abusivamente seconda Repubblica (che non é mai nata), frutto delle conseguenze dell’89 e di Tangentopoli, segna il passo. Anzi, dovrebbe essere alla frutta. Ha cancellato le identità, presenti in tutta Europa, ha espunto la storia dalla politica, ha svilito il dibattito, riaccendendo le passioni solo quando la storia e le identità, cacciate dalla porta, rientrano dalla finestra (sul fascismo e l’antifascismo, su Matteotti, sulla guerra all’Ucraina, su Israele e la Palestina, sull’europeismo, sull’unità nazionale o sull’autonomia differenziata, su quest’ultimo punto anche troppo visto il penoso match alla Camera). Il sistema politico post identitario riprende ad appassionare ancora solo su questioni identitarie e di principio. Se non ha più senso parlare di sinistra, di destra e di centro, ecco allora farsi largo i partiti personali. Si vota per la Meloni o per la Schlein, mentre Salvini é in calo ed é superato da Tajani. Renzi e Calenda continuano a litigare. Non si parla ormai più di partiti, e neppure di partiti personali, ma solo di persone. E questo in una Repubblica parlamentare e non presidenziale o semi presidenziale dove é inevitabile scegliere a suffragio universale la persona del presidente della Repubblica. Certo la dice lunga il fatto che i partiti identitari resistano ancora nelle repubbliche presidenziali come la Francia dove il Partito socialista con la guida del giovane Raphael Glucksmann é rinato, mentre in Italia da trent’anni siano stati sostituiti da contenitori dalle definizioni più stravaganti. Se in Europa avanza il gruppo popolare come quello di maggioranza relativa nel nostro Paese aderente a tale gruppo é solo Forza Italia con meno del 10%, mentre i socialisti europei stanno a ruota, e in Italia a rappresentare il Pse c’é il Pd, che non vuole essere definito socialista o socialdemocratico per non fare i conti con la storia. Il Pd é un partito socialists in Europa, democratico in Italia, berlingueriano nella tradizione, come appare sempre di più con la segreteria Schlein. Con questa contraddizione, tra storia e politica e tra Italia ed Europa, pare che il futuro che ci aspetta sia bipolare. E cioè che tra il centro-destra e il campo largo non ci sia spazio. Anzi, che il campo largo sia l’unico in grado di competere col centro-destra. Poi si guardano i programmi e si nota che, tranne il salario minimo, non c’é nulla che possa unire un polo riformista (Più Europa, Italia viva, che peraltro anche sul salario minimo esprime riserve, Azione e altri) e Cinque stelle. Non la politica estera, non le armi in Ucraina, non la riforma della giustizia, non il superbonus, non il reddito di cittadinanza. E mi fermo qui. Vincere é possibile, governare no. Allora si formi un’area riformista, una casa dei riformisti, primo tassello del ritorno alle identità e alla storia. Un luogo in cui si esalta Matteotti non solo per il suo martirio, in occasione del centenario, ma per il suo messaggio politico riformista e anti comunista, e Rosselli per il suo socialismo liberale, ma anche Gobetti per il suo liberalismo progressista, e si chiami a raccolta un popolo che si rifiuta di scegliere tra Meloni e Conte. Senza leadership predefinite, senza veti personali assurdi e autolesionisti, senza confini prestabiliti che non siano l’adesione a un’identità e a una storia, nonché a un programma. Se non si capisce che l’area tra il centro-destra e la Schlein, che guarda solo alla sua sinistra, é vasta, se non si comprende che Forza Italia, finché é alleata con Meloni e Salvini, non può interpretarla, allora si proseguirà nella saga degli errori. E delle beffe come quella dell’8 e 9 giugno dove, a forza di dispetti e di divisioni, due liste che si son beccate reciprocamente come i capponi di Renzo, si sono fatte reciprocamente harakiri.
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