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Hammamet

10 Gennaio 2020 687 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Un bambino, con un sasso lanciato a tutta forza da una fionda, frantuma i vetri della finestra di un collegio. Con questa immagine si apre e si conclude il film di Gianni Amelio. E pare quasi un simbolo della vita politica di Craxi che di vetri ne ha frantumati tanti. Con il coraggio, la spensieratezza e la spregiudicatezza di un adolescente, ma con un amore per il suo partito e il suo paese che forse non hanno eguali nel panorama di questo dopoguerra. I vetri infranti, dal punto di vista ideologico e politico, sono stati tanti: dal dogmatismo e dall’assolutismo di una sinistra troppo comunista per risultare vincente alla rassegnazione rispetto all’intangibile egemonia democristiana sul governo, dalla subalternità ai miti dell’intransigenza e della fermezza a quello di un arco democratico e ancora antifascista, dal “giù le mani dalla Costituzione” all’assunto di una scala mobile intoccabile al prezzo di un’inflazione galoppante, fino alle mancate conseguenze militari di una alleanza con gli Stati uniti vissuta fino ad allora con soggezione e subalternità.

Però quei vetri, che finiranno poi per ferirlo e portarlo a morte, rappresentano uno dei pochi affondo deduttivi a sfondo politico del film a lui dedicato. L’altro, Sigonella, é rappresentato da un gioco di soldatini sulla sabbia messo insieme dal nipote garibaldino. Troppo poco? Forse. Merito del film di Gianni Amelio é tuttavia quello di rilanciare la questione Craxi. Mai prima di oggi il caso C (più nella dimensione umana che in quella politica) é stato trattato con tanto rispetto e dolorosa partecipazione. Soprattutto per l’isolamento e la sofferenza dovuta alla lontananza forzata dall’Italia di Craxi e per la sua malattia che lo condurrà a morte, trattato qui più da esule che da latitante. In questo contesto é davvero impressionante l’interpretazione di Pierfrancesco Favino, che di Craxi assume pienamente le movenze e financo la voce in tutte le sue sfumature, spesso ripiegate in una rattristata malinconia che in Craxi acquisiva sempre tratti drammatici. Come Craxi qui Favino ama intrattenersi coi bambini, farsi carico delle sofferenze di qualche famiglia, giocare alla guerra col nipote, ricevere con caldi abbracci e baci tutti coloro che si recano da lui. Ma sa anche reagire a chi lo insulta con parole dirette e orgogliose, mai offensive, e condite con un’ironia e un sarcasmo molto raffinati.

Il film non é un documento politico e si serve di episodi di fantasia (come la presenza di Vincenzo durante il congresso dell’Ansaldo che lo mette in guardia dall’imminente eclissi del partito, di suo figlio Fausto che s’intrufola abusivamente in casa sua ad Hammamet, forse intenzionato ad ucciderlo, ma poi si lega a lui profondamente fino a strappargli un’immaginaria intervista sui misteri dell’Italia che consegna ad Annita (Stefania) dopo la morte del padre), ma anche di vicende mai avvenute (come il tentativo di partire per Milano per farsi operare, svanito per un ripensamento di Bettino, che si rinserra in auto all’aeroporto di Tunisi). Ma quest’ultimo episodio segnala in realtà una lacuna grave del film di Amelio che, non mettendo in luce la responsabilità dei magistrati milanesi col loro diniego al ritorno in patria per motivi sanitari senza limitazione della libertà, attribuisce anche al suo isolamento ad Hammamet un carattere misterioso.

Craxi rifiutò di trasferirsi in Italia non per cocciutaggine ma perché, com’é scritto nella sua tomba, ubicata nel piccolo cimitero cristiano di Hammamet, “la mia libertà equivale alla mia vita”. Non vi compare qui la motivazione della scelta di rifugiarsi in Tunisia alla fine del 1993, dopo che i processi che lo riguardavano si stavano chiudendo (in un battibaleno al contrario delle lunghe scadenze dei processi italiani) con condanne definitive, e tutti sulla base del presupposto che il segretario del Psi “non poteva non sapere”. Criterio che valeva per lui solo e non per Occhetto e D’Alema che, al contrario, potevano non sapere cosa fosse contenuto (un miliardo per la tangente Enimont) in quella borsa depositata a Botteghe oscure per conto di Gardini. Non vi compare il furore anti craxiano di Di Pietro e la sua caccia al cinghialone, il j’accuse di Craxi contro i deputati, accusati di essere tutti coinvolti e potenzialmente spergiuri. Non vi compare il senso di ingiustizia che ha attraversato il popolo socialista condannato, con Craxi, a una lunga espiazione per peccati mai commessi.

Ma non possiamo chiedere al film di Amelio, tutto incentrato sul rapporto padre-figlia, quel che il regista non voleva dare. Cioé di essere film politico, documentario di storia. Anche se é arduo raccontare Craxi, totus politicus, al di fuori della sua reale dimensione, il film ad essa ugualmente rimanda. E avere riaperto la discussione anche sul Craxi politico e sulla sue condanne è conseguenza inevitabile di un film dedicato alla tragedia di un leader e del suo partito. E in fondo anche un suo merito. Sono trascorsi vent’anni ed è troppo tardi per sperare in risarcimenti politici. Non é tardi invece per fare in modo che la storia, come profetizzò a suo tempo Bettino, “rimetta le sue cose al giusto posto”.

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