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Silvia e Aisha

12 Maggio 2020 441 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo
C’è tempo per capire quel che é accaduto nella testa della ventiquattrenne Silvia Romano, tenuta prigioniera per 18 mesi da uno dei gruppi jihadisti più sanguinosi e crudeli che si é macchiato dei peggiori crimini contro l’umanità. Si chiama Al Sahaabab e ad esso Silvia é stata venduta da otto terroristi che l’hanno prelevata il 20 novembre del 2018 dall’orfanatrofio di Chakama in Kenia. Al Sahaabab si é reso protagonista di stragi terribili. Basti ricordare quella del 2 aprile 2015 quando militanti di al-Shabaab fecero irruzione in un campus universitario a Garissa in Kenia assassinando almeno 148 studenti. E anche quella del 17 ottobre 2017 quando Shabaab perpetrò un grave attentato a Mogadiscio uccidendo oltre 300 civili.

Sono solo due delle carneficine che ormai non si contano e fanno salire a migliaia le vittime innocenti di questo gruppo di fanatici islamisti. Essere riusciti a portare a casa la ragazza viva rappresenta un merito dei nostri servizi, anche se sappiamo bene che il rilascio di Silvia ha avuto un costo, un costo che servirà per finanziare nuovi attentati, per seminare altro sangue. Ne valeva la pena? A mio avviso si, perché nessun costo é più alto di quello che uno stato deve pagare per aver lasciato coscientemente morire senza agire una ventenne catapultata in un territorio a rischio per ragioni umanitarie. Piuttosto é d’obbligo porsi un interrogativo sulle responsabilità di chi ha scelto per Silvia una zona del genere.. E’ stata l’Africa Milille, una onlus di Fano a farsi carico del trasferimento della volontaria in un territorio del Kenia. Conosceva questa onlus i rischi di quella zona? In un intervista rilasciata dopo il rapimento di Silvia a Il Resto del Carlino la presidente di quella associazione Lilian Sora disse testualmente: “Non c’è una realtà pericolosa lì. Lo sanno bene i volontari che sono rientrati da poco e già scalpitano per ripartire perché in questo momento siamo scoperti laggiù”. Oggi tutti sostengono il contrario. Se il ministero degli Esteri aveva notizie sulla pericolosità di quel territorio perché non l’ha comunicato? E la famiglia di Silvia, anche se la figliola era maggiorenne, aveva garanzie sufficienti per non opporre resistenza alcuna alla sua destinazione? Non tutti coloro che operano per il bene, almeno proclamato, finiscono per fare del bene. L’avventatezza, ammesso che non esistano anche interessi specifici, può procurare danni difficilmente riparabili: a una volontaria, al governo del suo paese, a tante possibili e successive vittime civili. Occorre che il governo censisca un po’ meglio tutte le organizzazioni che si occupano di volontariato e di cooperazione col terzo mondo, che scremi quelle serie e scrupolose da quelle superficiali, gestite un po’ artigianalmente, come risulta quella marchigiana e a queste ultime neghi finanziamenti e financo operatività. Lo stato italiano non può continuare a finanziare il terrorismo per la dabbenaggine di associazioni che inviano ragazzi in zone pericolose. Che dire sulla conversione della ragazza e sulla scelta di indossare un abito di impronta chiaramente jihadista che i terroristi islamici impongono in segno di sottomissione alle loro donne? Sia ben chiara una cosa. Una conversione non può avvenire sotto tortura e con l’assillo della morte e nel cupo e desolante strazio di una solitudine senza tempo. Se Silvia vuol diventare Aisha ha tutto il tempo per maturare la sua conversione nell’ambito degli affetti e della solidarietà della sua famiglia e dei suoi amici, dal momento che nessuno la costringerà col fucile puntato a non abbandonare altre religioni e nemmeno quei principi gandhiani che il padre professa e ben sapendo che una cosa é la religione musulmana e altra cosa é l’estremismo islamico. Silvia ha tutto il tempo di diventare Aisha distinguendo tra l’Islam e il jihadismo sanguinario dei suoi carcerieri di cui quella veste é purtroppo il simbolo. Lasciamola in pace. Il tempo lavora per aiutarla a ritrovare serenità e ad individuare le giuste distinzioni. Qualcuno ha evocato il terribile precedente di Patricia Hearst, la giovane ereditiera rapita da un gruppo armato, che rifiutò il ritorno a casa dopo il pagamento di un riscatto scegliendo di arruolarsi nel gruppo che l’aveva rapita e partecipando a rapine in banca che culminarono anche in un omicidio. Ma questa, del 1974, é un’altra storia. Silvia é tornata, ha riabbracciato la sua famiglia e prima si é pure mangiata una pizza, all’insegna del ritorno alla normalità. Dopo 18 mesi é ancora prigioniera di un incubo. Lasciamo che si risvegli poco alla volta.

 

 

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