Sulla fiducia bis a Prodi
Sig. presidente
capisco il suo sospiro di sollievo dopo il voto di ieri. Ma, come sostengono oggi tutti i commentatori politici sulla stampa, non credo che il voto di ieri sia risolutivo.
La crisi della maggioranza non è di oggi, ma nasce dalla interpretazione stessa del voto dell’aprile scorso. Le elezioni s’erano concluse con un risultato di sostanziale parità: 26 mila voti in più per l’Unione alla Camera e 200mila voti in più per la Casa delle libertà al Senato. La legge elettorale aveva permesso l’acquisizione di un premio di maggioranza alla Camera e, col voto degli italiani all’estero (chi è causa del suo mal pianga se stesso) l’Unione aveva ottenuto due seggi in più al Senato, dei quali uno sostanzialmente sempre in bilico tra le pampas argentine e “il sole de Roma”, e un altro perso per strada, dopo l’acquisizione di una presidenza di commissione coi voti dell’opposizione. Ciononostante l’Unione decretò la sua vittoria, la festeggiò a denti stretti, dopo ore di incertezze e palpitazioni, e continuò ad affermare, anche dopo defezioni e prove di maggioranza stentate, di avere diritto a governare l’Italia, anche col solo voto determinante di una parte dei senatori a vita. Negò la realtà, come fece quel giornale sportivo, dopo una prova della Nazionale in Inghilterra, che titolò: “Grande successo italiano per 2 a 2”. Credo che questo atteggiamento sia il logico risultato della pervicacia di un gruppo dirigente che aveva scommesso se stesso su una vittoria, che bisognava comunque decretare. Solo Massimo D’Alema, dopo le elezioni, introdusse valutazioni autocritiche e riconoscimenti all’opposizione e al suo leader. Valutazioni poi subito rientrate. E l’Unione scartò immediatamente l’idea, che invece aveva già preso piede in Germania, di procedere alla formazione di un governo di ampie intese, data l’esiguità e la precarietà di una maggioranza numerica. L’orgoglio sostituì la verità. E la supponenza fece il resto. Dunque non è una sorpresa che nel giro di poche settimane il governo sia finito due volte in minoranza al Senato, e per di più sui temi della politica estera, quelli oggi più qualificanti e rilevanti per un Paese europeo. Prima la commedia su Vicenza e l’ordine del giorno che approvava la relazione del ministro della Difesa votata dall’opposizione, poi la mozione sulla politica estera, pretesa dal presidente della Repubblica, come verifica della tenuta della maggioranza, clamorosamente sconfitta. Ma anche se il governo avesse una maggioranza numerica leggermente più ampia, resterebbe la questione della sua eccessiva eterogeneità, che lo rende assai debole ed esposto a rischi continui. A rischio cortei, sit-in, occupazioni, manifestazioni, tutto ciò insomma che una sinistra di piazza oppone sempre a una sinistra di governo. Da Vicenza ai cantieri della Tav, fino ai rigassificatori, ai no-global e alle sfilate pacifiste, la sinistra di piazza non può alla fine non condividere. Guardate, io non penso affatto che un governo non debba sapere ascoltare, dialogare e anche, talvolta, cambiare idea alla luce di sollecitazioni e proposte che provengono dal basso. Ma un governo non può, nel suo seno, contare su una componente che sempre ne contesta le decisioni quando esse si contrappongono al potere taumaturgico della piazza e al suo diritto di veto. Filippo Turati, il padre del riformismo socialista, ebbe modo di schierarsi apertamente contro il primo sciopero generale proclamato dai sindacalisti rivoluzionari nel settembre del 1904, definendolo un errore e un pericolo. E Bettino Craxi seppe sfidare il massimalismo della componente comunista della Cgil nel 1985 sul tema della scala mobile, vincendo un delicato referendum. Il riformismo è anche assunzione di responsabilità e si distingue dal massimalismo, dal populismo e ancor più dal rivoluzionarismo perchè non è mai subalterno agli estremismi e non ha paura di sfidare l’umore che appare prevalente tra le masse, quelle meno silenziose. Per questo non ho esitazione a sostenere che una parte cospicua del suo esecutivo, sig., presidente, non ha una cultura riformista e aggiungo, neppure una cultura occidentale. Non so se il ministro D’Alema abbia davvero pronunciato quelle parole su una sinistra che danneggia il Paese. Se non lo ha fatto, quelle parole le faccio mie. D’altronde, e non per spezzare una lancia a favore dei danneggiatori, la sinistra radicale è sempre stata coerente e chiara. Voi l’avere utilizzata per tentare di vincere le elezioni, ma sapevate benissimo quali erano le idee di Giordano, Diliberto e Pecoraro Scanio. Lo sapevate perchè gli stessi le avevano apertamente sostenute in Parlamento. E anche perché, nel lungo programma dell’Unione, così tanto decantato e che oggi avete avvertito l’esigenza di accorciare, sintetizzare e anche modificare, la sinistra radicale non vi aveva consentito di trovare l’accordo proprio sul tema dell’Afghanistan e della Tav, sui quali il programmone era così lacunoso e il programmino di oggi pare porvi rimedio. Si dirà: ma il governo non è andato in minoranza perché la sinistra radicale gli ha votato contro, si è trattato di un paio di defezioni. Sì, ma se sommate al paio di defezioni, quelle di due senatori che almeno hanno avuto il coraggio delle loro idee e sono stati così tanto contestati, bistrattati e addirittura minacciati e a loro va la mia solidarietà, se sommate ai Rossi e ai Turigliatto tutti coloro che votavano col mal di pancia e coloro che votavano solo per disciplina di partito e di coalizione e coloro che dopo aver votato, quasi come per emendarsi di un peccato hanno dichiarato la loro volontà di dimettersi per non compiere il sacrilegio di abiurare alla loro religione, se sommate anche coloro che, come spesso ricorda il segretario del Pdci, sono in dissenso assoluto sulla missione in Afghanistan, ma non vogliono far tornare Berlusconi, bè allora ditemi se questo governo ha una maggioranza politica. Un pregiudizio antioccidentale non può sorreggere il cammino d’un governo in Occidente e in Europa. Non accade in nessuna altra nazione. Noi abbiamo indicato al presidente della Repubblica come soluzione ideale della crisi numerica e politica del governo, la strada maestra, che già indicammo subito dopo il voto di Primavera e cioè la costituzione di un governo di ampie intese, allora già esistente nella sola Germania e oggi diffusosi anche all’Austria e all’Olanda. Oltre tutto in Italia tale soluzione sarebbe assai utile per uscire definitivamente dalla fase aperta con la rivoluzione giudiziaria e per fondare davvero un seconda Repubblica che non è mai nata.
Certo ha ragione il presidente della Repubblica quando sottolinea che il conflitto politico in Italia è il più aspro d’Europa. Da un lato si considera Berlusconi illegittimo come avversario, dall’altro si considerano gli ex comunisti, ma ora, non si sa per quanto però, iscritti al Partito socialista europeo, addirittura pericolosi per la democrazia e le elezioni un colossale imbroglio e un colpo di Stato, come le ha definite l’on. Bondi in tivù. Così non si va da nessuna parte. Questo bipolarismo non è la soluzione della crisi, è la ragione della crisi del nostro sistema politico e di governo. E’ un bipolarismo multipartitico che si basa sul potere condizionante delle estreme, che serve solo per vincere e a volte neppure per questo, ma non per governare. Da un lato la sinistra radicale che condiziona quella riformista, dall’altro Forza Italia e An che devono controllare la Lega e hanno perso l’Udc. Noi indichiamo un modello politico europeo. Siamo per la soluzione dell’anomalia italiana. Siamo il solo Paese dove rinasce il terrorismo politico, il solo Paese dove si apre un conflitto tra Stato e Chiesa su vicende risolte in tutte le altre democrazie, quali quelle dei diritti delle coppie di fatto, peraltro scomparsi dagli impegni del governo, siamo l’unico Paese europeo dove si rilanciano slogan quali “yankee go home”, e non certo per problemi urbanistici della città di Vicenza, e siamo l’unico Paese dove dovrebbero sorgere due partiti, il Partito democratico e il Partito delle libertà, assolutamente sconosciuti in Europa. Il caso Italia resta affidato a molteplici anomalie. Il superamento del fattore K si è imbattuto in Tangentopoli e la miscela generata è stata la nascita di un sistema politico meno qualificato sul piano delle identità e assai meno portato alla governabilità dell’Italia.
Sig. presidente
ho letto attentamente sia la sua relazione al Senato sia il suo dodecalogo. Capisco l’esigenza di una riforma elettorale. Sappia però che se si continua a ritenere che il corpo elettorale dovrebbe scegliere, come lei ha scritto, delle coalizioni, esso si pone fuori dal modello che, almeno per quanto ci riguarda, risulta il più confacente alle esigenze del Paese: quello proporzionale di tipo tedesco. Se vogliamo superare questo bipolarismo bastardo, non c’è altra via d’uscita. Un sistema che permetta ad ogni forza politica di presentarsi singolarmente accentuando la sua identità e accorpando eventualmente i suoi simili, e poi, solo dopo le elezioni, la costruzione di coalizioni tra partiti che possano individuare un programma comune. Se invece volete rilanciare questo bipolarismo, fondandolo su coalizioni delle quali nemmeno la eventuale nascita del Partito democratico e delle libertà riusciranno a fare a meno, allora tornerete daccapo, e la governabilità dell’Italia si farà sempre più difficile. Aggiungo che mettere nel calendario delle cose da fare, immediatamente, la riforma elettorale è un pò come ammettere di considerare le elezioni all’ordine del giorno. Io penso che non debba essere così, signor presidente. E penso anche che proprio lei avrebbe potuto e forse dovuto assumere un’iniziativa senza rinchiudersi nel recinto troppo angusto e accidentato della sua maggioranza. Lo so, lei è persona di una sola parola, e gliene dò volentieri merito. Però l’interesse generale del Paese è molto più importante del nostro orgoglio personale. Perché, vede, anche Angela Merkel aveva promesso ai suoi elettori un governo alternativo a quello di Schroeder e così aveva fatto Alfred Gusembauer in Austria e Jan Peter Balkenende in Olanda. Eppure, costoro hanno preferito annunciare un accordo coi loro avversari piuttosto che puntare a nuove elezioni.
Per di più: avevate conclamato la fine delle ostilità e non erano passate che poche ore e già venivano sparate nuove cartucce.
I dodici punti sono dodici come gli apostoli e le ricordo che neppure loro hanno impedito a Gesù di finire sulla croce. I Dico non ci sono, e Pannella e Boselli hanno protestato e non firmato, ci sono le pensioni ma il Pdci sostiene che non si deve toccare l’età pensionabile, si farà la Tav, ma Giordano dice che bisognerà valutare “soluzioni alternative”, Pecoraro Scanio esclude tassativamente il rigassificatore di Brindisi, implicitamente incluso nel punto 4 del dodecalogo, Ferrero ribadisce l’intenzione di cancellare i Cpt e Rutelli di intestarsi le liberalizzazioni, mentre Rossi e Turigliatto s’inventano la “fiducia a distanza” e dicono sì, ma ripetono che tra qualche giorno ripeteranno no alla missione in Afghanistan. Lei, presidente, che ha chiesto pieni poteri mi ricorda Leon Blum quando disse ai comunisti francesi, da socialista supino, “Io sono il vostro leader dunque vi seguo”.
Le faccio ugualmente tanti auguri. Glieli ho rivolti dopo le elezioni in occasione della fiducia, glieli rivolgo anche oggi a fronte della fiducia bis, che poggia sul programmino dei dodici punti, sulla ritrovata coesione di una maggioranza minima, che però non smette di litigare e che poggia sui nuovi convincimenti, sempre rispettabili, del senatore Follini e sulla decisione sofferta del senatore Pallaro, che come Pelepope cambiava la tela tra il giorno e la notte cambia il suo voto, visto che il presidente della Repubblica vi aveva chiesto una maggioranza senza i senatori a vita. Ricordatevi anche di quell’avverbio “stabilmente” che è così caro al presidente. Tanti auguri e, non posso dire, a presto. Non ci sarà un’altra volta, stavolta lo sapete bene.