Dino Felisetti: il socialista autonomista
Compie novant’anni e continua la sua vita come se ne avesse venti. Continua a fare l’avvocato, uno dei più stimati a Reggio, continua a scrivere di politica sui giornali. E immagino, conoscendolo, che continui ad appassionarsi di geografia (conosce ogni città, ogni fiume, ogni montagna del mondo). E quando si presenta in pubblico, affascina ancora tutti con il tono d’una voce calda e densa di emozioni. Leggera. Credo d’essermi imbattuto in lui per la prima volta quando avevo solo cinque anni. Nella vecchia abitazione dove ero nato, in via Baruffo, volevo entrare in cucina, ma mia madre mi dissuase con queste parole: “Non puoi entrare. Là ci sono i socialisti”. Era la prima volta che sentivo quella parola. In cucina c’era mio padre con Felisetti e Galaverni e Masini e Ceci, forse Brozzi, Salvarani e non so chi altro. Doveva essere, quella, una delle prime riunioni semiclandestine della corrente autonomista e nenniana del Psi reggiano, dopo l’invasione dell’Ungheria e in previsione del congresso di Venezia che si tenne nel febbraio del 1957. Felisetti, che già nell’immediato dopoguerra aveva ricoperto incarichi amministrativi in Comune e in Provincia, sarà poi il primo segretario provinciale del Psi dopo la scissione del Psiup e il congresso vinto dagli autonomisti reggiani nel 1964. Sarà ancora segretario dopo la scissione del Psdi nel 1969 e nel frattempo ricoprirà la carica di assessore all’urbanistica e di vice sindaco del Comune di Reggio. Poi, nel 1972, sarà eletto per la prima volta alla Camera dei deputati, rieletto sempre, nel 1976, nel 1979 e nel 1983 (in queste ultime occasioni ero io a guidare la federazione reggiana del Psi). Quando gli succedetti, nel 1987, Felisetti, che già aveva guidato la commissione giustizia alla Camera dei deputati, venne nominato membro laico del Consiglio superiore della magistratura. E poi, anche senza rivestire incarichi istituzionali, restò sempre in prima linea partecipando attivamente alla vita del partito, con una disponibilità e a volte anche con una modestia quasi innaturali. Anche dopo il 1994, quando il Psi venne sciolto. Anzi, dopo il 1994, ritrovò l’antico smalto e si mise alla testa di un gruppo di socialisti definiti autonomi e presentò (la voglia di combattere non si attenua con gli anni, anzi a volte si accentua perfino) anche una lista per le elezioni comunali del 1995. S’era rimesso a girare la provincia in lungo e in largo perchè non voleva rassegnarsi all’idea che il suo vecchio partito fosse definitivamente stato sepolto. Come un ragazzino. Volle anche aprire, con un gruppo di compagni, una sede in via Bellaria e iniziare un tesseramento. Nobile azione per un uomo che dalla politica aveva certo avuto molte soddisfazioni e che poteva ritirarsi senza patemi nella sua brillante attività professionale. Non ci volle mollare, per usare uno slogan desunto da Rosselli e usato allora da Intini. Poi fu alla testa del processo di costituente socialista che iniziammo insieme a Reggio a partire dal 1997. Ma Felisetti non è stato, ed è tuttora, solo una personalità politica di primo piano. E’ stato ed è tuttora un uomo di legge, un tecnico della legge. Non parlo solo dell’attività del suo studio legale, ma del ruolo che il suo partito gli volle attribuire per molti anni anche nell’attività parlamentare. In un suo libro sono infatti contenuti tutti i suoi principali interventi in Aula sulla materia: il ruolo assunto sulla riforma del codice di procedura penale e il brillante intervento svolto contro il tentativo di messa sotto processo del presidente della Repubblica Cossiga, dopo l’affaire Donat Cattin. Felisetti agiva spesso di testa sua. Forse dava qualche volta l’impressione di non riuscire a stare nel gruppo e di essere un pò troppo individualista. Ma spesso aveva ragione lui, come quando non accettò ordini da Craxi a proposito del comportamento da assumere in Commissione inquirente nel 1977 o quando scoraggiava tutti dall’idea di finanziamenti non ortodossi, perchè, diceva, “queste cose prima o poi si pagano”. Gli devo l’esempio che mi ha dato, al di là di qualche nostro dissenso interno, sempre coniugato con un sentimento di stima che credo reciproco. Gli devo quella dolcezza e sensibilità con la quale volle addirittura ringraziarmi per essergli stato vicino in occasione del suo incidente stradale della fine degli anni novanta e quelle telefonate dopo le mie elezioni in Parlamento, tutt’altro che dovute, ma immancabili, puntuali, per me così gratificanti. E’ stato un maestro anche in questo: di delicatezza, di forma. E in un’epoca come la nostra non è davvero poco. Auguroni, dunque, caro Dino. Bella la tua vita. Leggera, come la tua voce. E altri novanta di questi anni…
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