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A dicembre la presentazione del libro di Del Bue “La storia del socialismo reggiano” con Bersani e Nencini

30 Ottobre 2009 1.265 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

E’ ormai in stampa il primo volume della storia del socialsmo reggiano, che va dal Risorgimento alla prima guerra mondiale. Pubblichiamo la prefazione.

Una bella storia

Da tempo pensavo a una storia del socialismo reggiano. Da quando il Psi sparì, prima sotto i colpi
della cosiddetta rivoluzione giudiziaria e poi a seguito del suo scioglimento avvenuto del 1994.
Pensavo a quel filone di pensiero e di azione che soprattutto a Reggio Emilia aveva attecchito con
così tanto profitto, a partire dai primi seguaci delle nuove idee, che già potevano essere riscontrate
in qualche eroe risorgimentale, e fino all’epilogo, che segue di qualche anno la caduta del muro di
Berlino. Nella metà degli anni novanta ero animato dalla volontà di dimostrare che si trattava di una
storia nobile, anche se non esente da errori, che si trattava di una storia univoca, anche se travagliata
e costellata di divisioni e di scissioni. Che si trattava di una storia che doveva essere ricordata
proprio nel momento in cui l’aggettivo socialista aveva assunto agli occhi dei più una dimensione
negativa. Gli anni passano e i progetti, anche quelli più stimolanti, vengono poi spesso subordinati
ai ritmi della vita professionale e politica e qualche volta anticipati da altre e non meno gratificanti
esperienze. E’ quel che è capitato anche a me. Quell’idea di un racconto unitario della storia del socialismo
reggiano, che non è solo la storia del Psi, sia ben chiaro e su questo tornerò, viene ripresa adesso
con la pubblicazione del primo dei tre volumi previsti, quello che va dall’epopea risorgimentale alla
prima guerra mondiale. Il secondo si soffermerà sul periodo che va dal primo al secondo dopoguerra,
e fino al 1956, attraversando il periodo del fascismo e della clandestinità, e arrivando alla svolta del
1956, e il terzo traccerà il lungo percorso dell’autonomismo socialista fino alla fine del
Psi. La caratteristica a cui il libro, anzi i tre libri, si ispirano è quella di una storia del Psi
reggiano, anche se il socialismo non è stato solo interpretato dal Psi in Italia e naturalmente neanche a
Reggio. Già all’origine del primo volume sta un capitolo dal titolo significativo, “Prima del socialismo”,
a dimostrare che le idee socialiste sono state anticipate da idee affini, che trovarono interpreti
repubblicani, garibaldini e poi anarchici. Oggi, poi, contrariamente al passato, quando fare storia
di socialismo significava anzitutto affermare la superiorità del socialismo scientifico, quello di Marx
e Engels, sulle sue anticipazioni più o meno utopistiche e sulle sue revisioni successive, il concetto di
socialismo può raccogliere, ed è un bene che sia così, le più diverse sue interpretazioni senza essere
oggetto di qualche esame di autenticità da parte dei tribunali dell’ortodossia. E anzi, alla luce di
tutti gli avvenimenti del Novecento, proprio quelle che erano apparse manipolazioni e revisioni si
mostrano oggi più degne di attenzione e di rivalutazione di quanto non lo sia l’attestato d’origine
controllata precedente. Fino alla nascita del Partito dei lavoratori, avvenuta col congresso di Genova
dell’agosto del 1892, non esisteva un partito di ispirazione socialista di dimensione nazionale. E per
di più anche nei territori dove già aveva preso piede un’organizzazione socialista, come a Reggio,
ancora non era stato ben delineato il confine che separava socialisti e anarchici. Forse a Reggio, grazie
a Prampolini, questo confine era stato tracciato più che altrove, avendo Prampolini aderito alla
svolta del 1879 di Andrea Costa, dall’anarchismo al socialismo, già dal 1885. Ma fino al 1885 anche Prampolini,
con le prime esperienze de “Lo Scamiciato”, collaborava intensamente anche con esponenti
anarchici e libertari. E questa della contaminazione, e cioè di un’idea non dogmatica del socialismo
(“il socialismo che verrà”, necessariamente e senza violenza, secondo un’idea di evoluzione positivistica
più che non marxista alla quale ultima poi verrà applicata seguendo la logica della fatalità,
e che doveva solo essere preparato con l’organizzazione economica e politica) non fu solo applicata
prima della nascita del partito a livello nazionale. Prampolini lamenterà spesso che l’isolamento dei
socialisti e la loro decantata intransigenza non avrebbe prodotto frutti, tanto da arrivare, già prima
della nascita del Partito dei lavoratori, ad alleanze coi repubblicani e i radicali alla elezioni politiche
che nel 1990 elessero per la prima volta lo stesso Prampolini e Giacomo Maffei alla Camera.
E l’anno prima i socialisti reggiani vollero addirittura allearsi con una parte della borghesia che,
per fedeltà al primo Crispi, e con l’aiuto del prefetto filo governativo, avevano rotto la tradizionale
coalizione del mondo conservatore reggiano. In omaggio alla massima di Prampolini “meglio poco
che nulla” i socialisti reggiani si ritrovarono così quasi inaspettatamente alla guida del Comune di
Reggio assieme a conti e banchieri. Alleanza che durò solo due anni, ma che non sarà mai, anche in
seguito, sconfessata. La contaminazione non significava né per Prampolini, né per i suoi seguaci (l’unico vero revisionista
teorico italiano sarà, nei primi anni del Novecento, Ivanoe Bonomi, che sposò le teorie di Eduard Bernstein) che i
socialisti reggiani fossero indecisi sugli obiettivi di fondo. Prampolini ricorderà spesso, e la manchette
che figurava su “La Giustizia” lo testimonia, che l’obiettivo dei socialisti era la socializzazione
dei mezzi di produzione e dunque il superamento della società capitalistica. Naturalmente questa
certezza, che si sposava non solo con la drammatica situazione di un capitalismo selvaggio che
praticava, a cavallo del nuovo del secolo, lo sfruttamento più disumano (solo il governo Zanardelli
nel 1901-1902 introdurrà, con l’appoggio del Psi, una nuova normativa di salvaguardia per i lavoratori),
ma anche con un assurdo orario di lavoro per donne e bambini (non le otto, ma le dieci
ore giornaliere saranno conquistate in quel periodo), deve essere appunto inserita in quel contesto
storico definito. D’altronde Prampolini, che conduceva la sua “lotta senz’odio” e che fu definito dal
presidente della Camera Giuseppe Biancheri, nel 1902, “l’apostolo della pace” accentuava sia la
visione del socialismo come stato di necessità e di naturale evoluzione della società del suo tempo
(dunque la conseguente assurdità della violenza, non solo perché espressione degli istinti più barbari,
ma anche perchè inutile alla lotta politica e perfino dannosa per il raggiungimento del fine), sia la
dimensione organizzativa come funzionale, invece, a prendere coscienza delle leggi di natura che
avrebbero portato al socialismo, risponderndo da subito ai bisogni più impellenti delle classi subalterne.
Per entrambi questi due scopi (educazione e assistenza), ma anche come tessera di un mosaico più
generale, vennero create a Reggio le organizzazioni cosiddette economiche, ancor prima di quelle
politiche. E questa è un’altra specificità del socialismo reggiano. Quando il partito venne fondato a
Genova, a Reggio già esistevano decine di cooperative di consumo e di lavoro e stavano per essere
create le leghe di miglioramento tra i braccianti e gli operai (davvero pochi, ancora, in quegli anni).
Di lì a poco il Psi, nel 1899, conquisterà anche il Comune e qualche anno dopo la Provincia di
Reggio. E così si definiva il sistema riformista, con il partito (il primo congresso provinciale del Psi si
tenne a Reggio solo nell’ottobre del 1900) in condizione subordinata rispetto al sistema economico e
a quello istituzionale. Tutto il contrario del sistema comunista, o leninista, che era accentratore e col
partito inteso come avanguardia rivoluzionaria che dettava la linea, il sistema riformista era legato
al suo territorio con le varie associazioni, costituite da decine di migliaia di iscritti, che prevalevano
sul partito. Certo non mancarono atteggiamenti di stampo autoritario (il Psi di Prampolini non
aveva i caratteri del partito libertario) e le scomuniche del deputato Giacomo Maffei e del primo
cooperatore Contardo Vinsani, quello a cui si deve la geniale scoperta della moderna concezione
della cooperazione di consumo, ne sono prova eloquente. Resta il fatto che tutti i maggiori seguaci
di Prampolini furono impiegati per lo sviluppo del movimento economico: Antonio Vergnanini e
Arturo Bellelli furono entrambi alla guida della Camera del lavoro, mentre Luigi Roversi, prima
di essere sindaco di Reggio, fu alla direzione della Federazione delle cooperative di lavoro, Amilcare
Storchi, fu a lungo a capo della Lega dei contadini e segretario della Camera del lavoro a Carpi e
a Ferrara, poi giornalista di prim’ordine, e Alberto Borciani, Gaetano Chierici, Patrizio Giglioli,
Alessandro Cocchi, Alessandro Mazzoli, lo stesso Roversi, furono validi amministratori. Un gruppo
affiatato, anche se non sempre politicamente omogeneo, che costituirà il vertice del sistema riformista
reggiano. Zibordi fu il vice Prampolini. Venuto da Mantova a Reggio nel gennaio del 1904 a
dirigere l’edizione quotidiana de “La Giustizia (Prampolini dirigeva quella settimanale) si trovò
alla guida del sistema reggiano quando Prampolini, soprattutto tra il 1911 e il 1914, fu costretto a
isolarsi per le sue frequenti crisi depressive.
Il contributo che il socialismo reggiano diede al socialismo italiano fu immenso. Lo fu in termini
organizzativi con il partito reggiano che costituì, al momento della fondazione del partito a Genova,
circa il 22% del totale dei delegati, inviati dalle varie associazioni. Due anni prima, dopo le elezioni
che segnarono la prima presenza organizzata di deputati socialisti in Parlamento, se escludiamo
il solo Costa, che venne eletto già nel 1882, il gruppo socialista contava di quattro elementi dei quali
due erano reggiani (Prampolini e Maffei). Il riconoscimento della supremazia reggiana sul partito
nazionale si mostrò tale quando venne offerta a Prampolini la direzione del giornale del partito e
cioè “La lotta di classe”. E si palesò anche nella convocazione del secondo congresso, proprio a Reggio,
nel settembre del 1893. Il socialismo reggiano fu anche punto di riferimento come modello. Sia per
ciò che riguarda le esperienze cooperative e sindacali (Vergnanini verrà chiamato nel 1913 a guidare
la Lega nazionale delle cooperative a Roma), sia per quanto riguarda alcune vere e proprie anticipazioni
pratiche: penso alla fondazione della Banca delle cooperative e alla costruzione della ferrovia
Reggio-Ciano da parte del Consorzio cooperativo che poi la gestì, ma penso anche alla politica delle
municipalizzazioni, a cominciare dalla farmacia fino a quella dell’elettricità, del gas, della luce
elettrica e addirittura del pane). Lo fu come esperienza editoriale giornalistica (“La Giustizia”, nata
nel 1886 come settimanale, poi divenuta nel 1904 quotidiana e settimanale insieme, sarà anche
organo regionale e poi, dopo il 1922, diverrà organo nazionale del Psu).
E infine, caratteristica del socialismo reggiano a cavallo del secolo, fu la particolare esperienza del
socialismo evangelico nell’ambito, però, della lotta senza quartiere alla Chiesa del tempo. Non esiste
solo la famosa Predica di Natale del 1897 a testimoniarlo, ma un insieme, continuo, incessante,
spesso soverchiante, di articoli sulla figura di Gesù Cristo, di racconti, di favole, di parabole, di
citazioni, sempre o quasi sempre, sposate con la contrapposizione ad una Chiesa che di cristiano, a
giudizio di Prampolini e dei suoi, non aveva proprio nulla. Che alla Chiesa cattolica venisse contrapposta
quella socialista con altri miti, ma non meno accattivanti, convinse addirittura due preti
a spretarsi e ad abbracciare il nuovo credo. Don Levoni e don Magnani buttarono alle ortiche la loro
tunica nera e si misero il garofano all’occhiello tra il 1909 e il 1911, destando stupore e meraviglia
non solo a Reggio. D’altronde Prampolini, (qualcuno aveva scritto sui muri della città “Viva Prampolini,
il Dio dei poveri”) era di per sè una figura mistica. Con quel suo portamento austero e quella
barba fluente e quella voce calda e bassa, che voleva convincere, ma con mitezza e ragionamento,
quasi avvertisse l’esigenza di conquistare il consenso solo con la forza delle sue argomentazioni e
l’esempio della sua persona. A lui si fanno largo i congressisti di Genova dopo una sfuriata indescrivibile
e in tutta la sala si diffonde un silenzio di stampo “religioso” (questo aggettivo viene usato da
tutte le cronache del tempo). Meuccio Ruini lo ricorderà come un santone descrivendo Reggio come la Palestina
del socialismo italiano, mentre Alessandro Mazzoli rammenterà di quando a Gualtieri Prampolini
concluse un comizio mormorando “Io vi benedico”.
La storia del socialismo non è solo la storia del Psi. Dal 1921, dopo la scissione di Livorno, e soprattutto
dall’ottobre del 1922, dopo l’espulsione dei riformisti (tra i quali, oltre a Turati e Treves, lo
stesso Prampolini) il Psi diventerà uno dei partiti di riferimento. Nel dopoguerra si consumeranno
altre scissioni e divisioni. Eppure questa storia, sia pur controversa, di idee e di azioni, merita di
essere ancora oggetto di ricerche e di attenzione. E in essa, in particolare, la meravigliosa storia dei
riformisti reggiani, una bella storia di anticipazioni e di coerenza, resta davvero, ancora oggi, come
un modello di socialismo, forse il solo, a cui fare riferimento, capace di segnare profondamente la
storia di Reggio Emilia e dell’Italia tutta. Tra il “fare come a Reggio” o il “fare come in Russia”, oggi
non c’è davvero più nessuno che nutra dubbi di scelta.

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