La Reggiana fa novanta
Questo il testo dell’articolo di Mauro Del Bue scritto per “Stampa reggiana” di Ivano Davoli: “La Reggiana fa novanta. Novant’anni di storia e di passione, di successi e di sconfitte, di illusioni e delusioni, di promozioni e retrocessioni, di traguardi tagliati a braccia alzate e di altri falliti per un pelo o per un palo. Perchè il calcio è cosi. Dall’inferno al paradiso andata e ritorno, il viaggio è breve e spesso inafferrabile. E gli anonimi attori d’uno sport il più popolare al mondo diventano eroi e poi a volte ritornano fantasmi. Non c’è niente di più volubile del tifoso. L’irrazionale esaltazione affidata a un rigore o a un tiro deviato per caso, la fortuna e la sfortuna, che si ergono a padrone del nostro domenicale umore, attraversano dal 1919 la storia di Reggio. La storia d’un rito che si ripete sempre uguale e che ha fatto scrivere a un celebre autore un volume dal titolo emblematico, “La tribù del calcio”. E’ un rito che ci accompagna coi suoi colori e canti e slogan e artifici vari, quasi fossero inni alla pioggia o al sole, che son parte integrante della cultura tribale del calcio. Ma non per questo questa dimensione che ci riporta al primitivo è da considerare negativa nella età della telematica e dell’informatica. Da un certo punto di vista si può anzi dire che le due dimensioni, quella reale e quella virtuale, convivono qui e si confrontano e si compenetrano e a volte si contrappongono. E’ meglio una partita allo stadio o alla tivù e oggi anche al computer e cellulare e domani magari sul comò di casa tua? Celebreremo questi novant’anni del calcio di casa nostra, quelli con la maglia granata, con una grande mostra storico-fotografica, composta da 166 pannelli, che verrà inaugurata il 12 dicembre alle ore 18 presso la sala degli ex Stalloni di via Dante. Sarà, quella, un’occasione unica per vivere insieme la storia che inizia nel 1919, anno di fondazione della nostra Reggiana, ma in realtà nel 1909, quando per la prima volta a Reggio si disputò una partita di football, al campo Camparini di via Guasco tra le società ginniche “Forti per essere liberi” e “Virtus Reggio”. Rivisitati, questi novant’anni, attraverso la sintesi della ricerca che ho minuziosamente effettuato e pubblicato nei miei tre volumi (di oltre 1200 pagine con 3mila foto, e tutte la partite dei campionati commentati e con protagonisti e aneddoti e chi più ne sa davvero non c’è). Un lavoro quasi maniacale, ossessivo, da malato di calcio e di storia reggiana, perchè il tutto rimanda sempre alle vie di Reggio, alla sue locande e trattorie e bar e chalet estivi e teatri e cinema e alle sue lotte politiche, ai tormentoni musicali del tempo. Rimandano alla Locanda Roma e al Bar Roma e a via Roma e non so perché tutto si chiamava sempre Roma, compresa una squadra che nel 1913 s’era formata a Reggio. I tre volumi saranno per l’occasione raccolti in un cofanetto granata raffigurante la foto della prima squadra del 1919. La prima Reggiana aveva la maglia nera con bordi bianchi (assumerà quella granata l’anno dopo) perché, poco prima dell’unificazione tra il Reggio e l’Audax che diede vita alla nuova società, il Reggio football club, che aveva la maglia granata, s’era unificato con la reggiana e bianconera Juventus, assumendone i colori. Nel cofanetto verrà inserita anche la foto della squadra della storica promozione in serie A del 1993, nonché quella dei quattro più grandi allenatori: Severino Taddei, il fondatore della Reggiana, granata sia a Reggio sia a Torino, Karl Sturnmer, il viennese che insegnò dal 1920 il calcio ai nostri concittadini e che allenò anche il grande Felice Romano (che poteva guadagnare anche mille lire al mese), Luigi Del Grosso, il seminatore d’oro, che ci tolse dall’onta della Quarta serie per condurci fino, ma purtroppo non oltre, il confine della serie A (“Un parmigiano ci ha fatto retrocedere”, disse Visconti dopo la penalizzazione che ci costò la Quarta serie, subita a causa della denuncia del Parma nel 1953 “e un parmigiano, cioè Del Grosso, ci farà risalire). E poi Pippo Marchioro, l’artefice della grande , entusiasmante cavalcata dalla C alla A. La mostra si snoderà lungo tutto il novantennio, passando tra i primi e pionieristici calci di qualche ragazzino reggiano in maglia granata, alla fondazione della Reggiana da parte di Severino Taddei, il 25 settembre del 1919. Poi, dal consolidamento della società e, nel 1924, alla prima promozione in Divisione nazionale (attuale serie A, ma a gironi disputata con gli stranieri Powolny, Huber e Hajos), fino ai cupi anni trenta d’una serie C in camicia nera che pareva eterna. E, ancora, dalla promozione in B durante il primo anno di guerra, alle bombe che convivevano col pallone nel Torneo Alta Italia del 1944, ai primi anni del dopoguerra con i nostri tra la B e la C, fino alla retrocessione all’inferno della Quarta serie nel 1953. Poi dai magici anni di Del Grosso che dalla Quarta serie ci portò a sfiorare più volte la A, fino agli anni di Bizzotto e di Dante Crippa con la carbonella del Mirabello che diventò prato verde per pervenire a quelli, davvero unici, di Pippo Marchioro, che arrivò dove nessuno era arrivato mai, alla moderna serie A, per concludere con la inaugurazione del nuovo stadio Giglio, voluto da Dal Cin, e con la seconda promozione in A, con Ancelotti al timone. Poi gli anni più recenti, fino al fallimento e alla rinascita. La mostra si snoderà lungo un percorso. Che è poi la rassegna di un lungo racconto, di un romanzo popolare del secolo che s’è chiuso e dei pochi anni di quello appena aperto, dove le partite sono un pretesto per narrare una storia, che oscilla tra quella dell’Italia, quella di Reggio e forse anche la mia personale. La narrazione, così com’è stata concepita è, credo, unica nel panorama di quelle della squadre di calcio, comprese le più grandi. La storia scritta con l’amore per una città che è la nostra, così diversa oggi da come era in quei primi anni del secolo scorso, quando tutto ha inizio. E dove solo la nebbia e la neve e il sole e l’afa estiva, ma forse sono mutate anche queste, ci accompagnano senza cambiamento. C’era una volta il Mirabello e oggi c’è il Giglio. C’era una volta il vecchio Mirabello con una tribuna in legno e coi pali dritti e sconnessi da dove non si vedeva quasi niente. E poi il Mirabello con la tribuna in cemento costruita nel 1946 e poi quello coi tubolari, e poi quello con il tribunone che sembra un’incombente, spaventosa minaccia per i passanti della via sottostante. E oggi c’è il Giglio, dove per entrare devi passare due strati di inferriate e dove tutto è militarizzato. Il calcio con le manette, con i tornelli e gli steward che ti mettono le mani in tasca. Lo sport come un pericolo, dove i derby non sono più derby perchè si giocano a porte chiuse o senza gli ospiti e dove gli stadi si vuotano per far posto alla televisione. Forse non mi sarei mai appassionato al calcio senza un Reggiana-Parma del 1959, coi parmigiani che lanciavano gli sfottò e i nostri che rispondevano e noi lì ragazzini, anzi bambini, arrampicati sopra un plico di cuscini e prima a disegnare le maglie crociate sull’opaca umidità dei vetri di casa mia. A tifare per il sole contro la pioggia, a soffiare per mandare via la nebbia, per paura che la partita non si potesse disputare e pensando che, come Mike Bongiorno non fosse un uomo vivente, ma un minuscolo lillipuziano che viveva solo dentro la mia tele, anche Pistacchi fosse vivo solo la domenica e chissà perché non potesse neanche parlare. Anche noi facevamo la danza contro la pioggia e contro la nebbia che allora incombevano sovente nel mese di novembre. Per evitare un lunedì a scuola senza una domenica vera. E quando si prende passione, così tanta, per le domeniche col pallone allo stadio, poi non si può smettere. Così è per chi ama i riti e non riesce a disabituarsi mai. Come fumatori di calcio che non ce la fanno a non fumare più. Anche se forse fa male. Oggi è così. Tanti preferiscono la tivù. Ma che odore ha la tivù, che rumore ha la tivù? Lo stadio ha un odore e un rumore. Lo senti e non lo puoi spiegare. Una volta sapeva di fumo speziato perchè un signore fumava la pipa davanti a me, tutte le domeniche e l’odore si diffondeva per tutta la tribuna. Mi sembrava che l’intero stadio emanasse quel magico profumo di tabacco speciale. Guardare la squadra del cuore in tivù è come amare una donna al telefono. Non c’è prova virtuale che valga quella reale. Anche adesso. Eppure adesso la gente diserta lo stadio. Perché è freddo, perché il calcio non è più quello di una volta, perché negli stadi c’è la violenza, perché i calciatori non sono più reggiani e spesso cambiano squadra e oggi sono degli avventurieri e banalità di questo tipo, che nascondono solo una sopravvenuta pigrizia e un’assuefazione da telecomando. Non parlo da assessore. Ho detto più volte che io non sono e non sarò mai un assessore tifoso. Sarò un assessore e un tifoso. Le due cose messe insieme possono produrre guasti. Per quanto mi riguarda sto lavorando attivamente per costruire nuove palestre, nuove piscine, un nuovo e moderno palasport, per dotare gli sport di base di impianti e in particolare per aprire nuovi spazi per gli handicappati che, sorretti da tanti valenti e meritevoli dirigenti, stanno dimostrando che anche a Reggio lo sport non solo non è loro inibito, ma è pienamente compatibile con la loro condizione. Ma questo è un altro discorso. Che qui non vale. Una volta, quando parlavi dell’invasione sovietica in Cecoslovacchia, dovevi contestualmente parlare anche del Vietnam, se no venivi considerato di destra. Oggi, se parli solo della Reggiana o anche della Trenkwalder, rischi di essere considerato solo un cultore dello sport spettacolo. Una volta s’era anche teorizzato che esisteva uno sport “democratico” (ho rintracciato un opuscolo del 1951 proprio intitolato così). Era quello di base, che comportava anche, evidentemente, l’esistenza di uno sport antidemocratico, che era quello, appunto, considerato uno spettacolo. E si contrapponevano anche i mega impianti agli impianti di base. Due contrapposizioni superate negli anni. Perché sport spettacolo e sport di base spesso convivono ormai nelle stesse società (anzi le squadre di bambini e di ragazzini e di allievi e di non so cos’altro sono presenti in modo massiccio nelle grandi società). E nei mega impianti si costruiscono palestre, piscine, sale e uffici. L’unica differenza, a mio giudizio, è che gli enti pubblici non devono investire negli impianti per lo sport spettacolo (che ormai sono veri e propri business per i privati), se non eventualmente in riferimento agli spazi riservati allo sport di base. E’ finito, dunque, con la caduta del Muro, anche il muro delle dicotomie. Siamo nell’epoca della compatibilità. E nello sport, anche a Reggio, agiremo su questo versante. Senza timidezze e false ipocrisie. Senza vergognarci di una vecchia passione e sapendo che lo sport fa bene se lo pratichi, ma ti può aiutare anche se lo segui.
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