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Quell’improbabile buffone di corte del Novecento

8 Aprile 2011 1.704 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Il Rigoletto reggiano è stato salutato da applausi e da qualche contestazione riservata al tenore Eric Cutler e soprattutto al regista Daniele Abbado.Quest’ultimo si è impegnato in una difficile operazione che riesce felicemente in molti melodrammi ottocenteschi (ricordiamo un’ottima attualizzazione, in chiave psicoanalitica, di Traviata andata in scena, in collaborazione col Comunale di Bologna, qualche anno orsono nel nostro Municipale), ma si rivela assai più complicata e discutibile nel dramma di Victor Hugo “Le roi s’amuse”, musicato da Verdi, con diverse traversie dovute all’intervento censorio. La prima verdiana risale al 1851, quando ancora l’Italia non esisteva e gli austriaci dominavano su Milano. Triboletto divenne Rigoletto, il re si trasformò in duca, ma il sacco dell’ultimo atto, con cadavere di Gilda incorporato, venne invece considerato irrinunciabile dall’autore e rimase tal quale nonostante le controindicazioni rivolte al pubblico decoro e apertamente richieste dai censori. Daniele Abbado espunge l’opera dal suo contesto, coi frizzi e le impuntature del tempo, gli ori, i dipinti e gli arazzi della corte di Mantova e lo pensa più meno spostato ai giorni nostri, avvolto dal grigio continuo che molto appesantisce le scene e i movimenti, da continui viavai di rigidi e maestose pareti. Con l’improbabile buffone di corte che si trasforma in una sorta di cameriere con tanto di cravattino nel contesto di scene erotiche palesi e anche di qualche punta di eccessiva volgarità. Come quando Rigoletto sbeffeggia Monterone, allargando le gambe alla figliola per cerficare l’avvenuta penetrazione del duca. La musica è di per sè allusiva, e quegli archi che commentano il primo atto evocando le scene, e quella banda che ne scandisce i movimenti e anche il degrado da dietro le quinte, potrebbero bastare. Non c’è mai bisogno, nell’opera, di travalicare le espressioni musicali con sceneggiate che appaiono di dubbio gusto. Basta il non visto che è spesso più credibile e veritiero perchè l’immaginazione è quasi sempre più realistica della sua concreta rappresentazione. In mezzo ci sta la musica che fa il resto. Abbado non è nuovo a operazioni che tendono a calcare la mano con tratti di marcato espressionismo e che imbalsamano i personaggi e le scene. Basti ricordare La Cenerentola dell’anno scorso con quelle cucine Zoppas che scendevano e salivano sul palcoscenico come fossero angeli del cielo e anche il suo Flauto magico, che tendeva a ottenebrarsi e a vivere in una magica ambientazione notturna e priva di quegli effetti plastici e gioiosi che caratterizzano la musica di Mozart. Che dire? Direi che ormai la stampa locale non ha più pensiero critico. Basterebbe ricordare i tempi di Barani e di diapason, quelli in cui non c’era opera lirica che non venisse sottoposta alla lente più impietosa d’una critica competente e senza alcun complesso d’inferiorità. Quel Rigoletto del 1965 con la regia di Becher cantato da Capuccilli, Pavarotti e la Rinaldi, che passò negli annali della storia del nostro Municipale, e al quale nulla fu risparmiato, dopo che dal Loggione s’alzò la spasmodica richiesta: “Luce…”. Oggi le temp passe, e le roi s’amuse… E così tutto va bene, o quasi, madame. E i critici divengono assai più comprensivi del pubblico. Il contrario d’un tempo che fu. Come verso l’orchestra diretta dal giovane Diego Thorez, che un giorno diventerà anche grande, speriamo per lui. Ma che si è rivelato incapace di arrivare a una equilibrata sintesi dei suoi tempi, da rock nel primo quadro e poi allungatissimi e sonnolenti nel secondo (forse per assecondare i cantanti…). Buona, invece la prova di Roberto Frontali, nella parte del buffone di corte. Mettiamoci anche il fatto che la sera prima aveva cantato “I Pagliacci” a Catania, mettiamoci anche le difficoltà d’interpretazione d’un ruolo irreale, ma Frontali è 0ttimo professionista e grande interprete, dotato di una voce che col tempo si è alquanto irrobustita. La Gilda di Ekaterina Sadrovnikova è credibile, dolce, ma fragile. Forse un pò troppo. La sua voce esile ben si adatta ai recitativi e ai gorgheggi di “Caro nome”, meno nei dialoghi drammatici col padre (in “Sì vendetta” non la si sente o quasi) dopo il rapimento e prima della morte. Bene lo Sparafucile di Gianluca Beruatto e assai sensuale la Maddalena che consuma l’atto erotico in scena col giovane duca ubriaco. Delle contestazioni al tenore già si è detto. Eric Cutler ha voce e prestanza fisica, peccato che canti male. E soprattutto che sia dotato di scarsa musicalità, sfugga ai tempi dell’orchestra e si intorpidisca nella voce sui toni alti. Dopo il suo “La donna è mobile” un urlo di disapprovazione si è levato in teatro… E non si riferiva al concetto espresso nella romanza di Verdi. Quel si naturale era davvero più discutibile della mobilità dell’essere femminile…

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