Un Don Giovanni drogato e un po’ pedofilo
Ancora il ferro da stiro. Già l’avevamo annotato nel Fidelio della Scala, un bel ferro da stiro moderno e di marca. Adesso anche nel Don Giovanni, prodotto dal solito circuito lombardo, dei teatri di Como, Pavia, Brescia, Cremona, a cui chissà perché si è aggregato, oltre a quelli di Jesi, l’Aquila e Bolzano, anche il teatro Municipale di Reggio Emilia, alla faccia dell’Ater (l’Associazione dei teatri emiliano-romagnoli). Leporello stira i calzoni di Don Giovanni. Un Leporello, non servo, ma domestico. Un paio di decenni fa Reggio Emilia rompeva lo schema Ater per approvvigionarsi direttamente dai due enti lirici, la Scala e il Comunale di Bologna. Oggi si rivolge a Como e per il Falstaff a Piacenza. Certo le risorse non sono più quelle di un tempo e mettere insieme una stagione lirica è già un successo. C’è da rassegnarsi e da accontentarsi dei giovani cantanti che hanno, con generosità anche se con molte lacune, interpretato questo Don Giovanni, ben diretto dall’impeccabile José Luis Gomez Rios.
La sua orchestra dei Pomeriggi musicali si sfrangia un po’ nel preludio, non esce con forza in quelle scale che dipingono e anticipano come un affresco il finale dell’opera, poi si riscatta e tratteggia con sicura efficacia il finale del primo atto e quello, più complesso, dell’incontro tra don Giovanni e la statua del commendatore, che Vick fa uscire dalle chiappe di una statua imponente di donna nuda. La scelta di espungere dal Don Giovanni la romanza di don Ottavio, “Della sua pace”, e di aggiungervi, come è ormai costume, l’insieme finale con la fuga “Questo é il fin di chi fa mal”, che tanto ricorda il finale del Falstaff di Verdi “Tutto nel mondo è burla”, risale alla versione di Praga, a cui spesso si contrappone quella di Vienna. Scelta da rispettare.
Ma torniamo alla regia di Graham Vick. Ho ancora negli occhi il suo maestoso Mosé rossiniano di Pesaro, la meravigliosa rappresentazione del popolo ebreo tratteggiata con forza, colore, genialità. E anche quel Macbeth della Scala con la Guleghina. Innovazione e rispetto scrupoloso del senso dell’opera lo caratterizzavano. Qui no, per niente. Tutto è distorto. La figura di Don Giovanni, un giovane mezzo matto, drogato, un po’ pedofilo e anche omosessuale (incompresibile l’ultima scena in cui con Leporello inscenano un sorta di tv a circuito chiuso dove si spogliano ragazzine e anche un ragazzino che si punge il costato) contrasta in tutto col carattere del personaggio. Don Giovanni è scapestrato e peccatore, ma è anche un cavaliere tutto d’un pezzo che non si piega di fronte alla morte, anzi la sfida e non accetta pentimenti. Peggio, molto peggio, Leoporello che dopo la sua scomparsa lo condanna eticamente (come tanti politici di oggi) e se ne va alla ricerca di un altro padrone.
La scena di donna Anna con le mutande alle caviglie, che esce da un’auto nera con Don Giovanni mascherato (lei fa sesso solo con un ignoto e la maschera la pretende anche da don Ottavio) ci può anche stare, ma che dire di donna Elvira vestita da suora, lei che deve piombare in scena come un’Erinni insultando don Giovanni? E che dire della scena dello sposalizio tra Zerlina e Masetto, caratterizzata dal fatto che don Giovanni è un cavaliere, cioè un nobile e per questo viene accolto? Qui è forse un cavaliere della Repubblica, magari reso tale da qualche ministro compiacente, perché del cavalierato del lavoro (di quel lavoro lì…) non penso possa fregiarsi. Con Vick, qui lo apprezzo, non sai mai cosa possa riservarti la scena seguente. Attendi sospeso tra curiosità e ammirazione per il coraggio. Anche lo scandalo ha un’attrazione. Pensi di aver raggiunto il massimo con le tre maschere travestite da mignotte e don Ottavio con la gonna e la calzamaglia alla Renato Zero e alla Mago Zurlì, e invece non sai ancora che, nell’ultimo atto, la cena di Don Giovanni si trasforma in un sorta di provino televisivo di ragazze e ragazzi forse per pornoattori, con il famoso Marzemino rovesciato sulla schiena e la mutande ancora alle caviglie.
Pensavamo di aver visto di tutto nell’opera di oggi. Questo don Giovanni ci mancava, dopo quello di Ronconi dominato da letti e lettoni calati dall’alto. I giovani cantanti se la sono cavata così così. Meglio il don Giovanni baldanzoso di Dyonisios Sourbis e il Leoporello gustoso di Leonardo Galeazzi del resto. Le voci femminili sono un po’ zoppe, soprattuto la donna Elvira di Mariateresa Leva, che manca dei toni medi e bassi, e la donna Anna di Ekaterina Gaidanskaja, un po’ troppo sguaiata, meglio la Zerlina di Alessandra Contaldo, silenzioso il Masetto di David Giangregorio. Diversi “buu”, qualche “vergognatevi” e “buffoni” lanciati da un pubblico parecchio scosso. Chi applaudiva restava, gli altri sono fuggiti. Alla fine i presenti hanno applaudito a lungo anche con ovazioni cantanti, coro e orchestra. Il regista non c’era. Meglio per lui…
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