In morte di Pietro Ingrao
Ingrao era considerato il più prestigioso leader della sinistra del Pci, mentre Amendola lo era per la destra. Era amato dai giovani del sessantotto che lo esaltarono con quello slogan, non proprio gratificante, e cioè “Ingrao è il nostro Mao”. L’anno dopo, però, fu tra coloro che votarono a favore dell’espulsione dei giornalisti de “Il Manifesto”, tutti ex ingraiani. Amava i movimenti, i sessantottini, quelli per l’autunno caldo del 1969, poi via via, i pacifisti, le donne in nero, le occupazioni della Fiat e chissà ancora cosa. Però li conciliava sempre con una visione leninista del partito a cui tutto deve essere subordinato.
Quando, nel 1989, Occhetto pensò fosse giunto il momento di cambiare il nome del Pci e di rinnegare il comunismo che era già stato sepolto nei paesi che l’avevano conosciuto, un fremito gli percorse la schiena. E pensò preoccupato a come avrebbe reagito Pietro Ingrao. Il quale, interpellato come Achille nel chiuso della sua tenda e con la fronte perennemente corrucciata, disse che prima del nome bisognava chiarire la cosa. Da allora tutti chiamarono il partito senza il vecchio né il nuovo nome, proprio “la cosa”. Si trattava, in fondo, di una battaglia vinta da Ingrao. Una delle poche.
Ingrao era un leader carismatico. Non cambiava tanto facilmente idea, tanto che dopo la nascita del Pds non vi aderì e poco dopo fu a fianco di Rifondazione dove portò il suo più intelligente discepolo, Fausto Bertinotti, ex sinistra Psi, ex sinistra Pci, ex sinistra Cgil, uno che si incazzava anche se vedeva un sorpasso a sinistra della suo auto. Ma uomo gentile e rispettoso di tutte le opinioni. Credo che questo fosse anche lo stile di Ingrao. Lo ricorda la Castellina quando rammenta il suo continuo interrogare gli altri per scrutarne il pensiero. Il suo pareva eternamente in stato di produzione di dubbi con quei segni profondi della fronte e quella smorfia permanente.
Questo dell’interrogarsi (al tempo della presidenza della Camera tra il 1976 e il 1979 non disdegnò la riflessione sulla riforma istituzionale che Craxi provocò col suo articolo sull’Avanti del 1979) é l’aspetto forse più moderno di Ingrao che lo tratteggia come spirito antidogmatico. Più di altri suoi compagni, certo. Comprese, oddio non fu certo il primo, la supremazia della televisione e si ritirò da ogni militanza attiva di partito perché aveva ben chiaro che non era più quella la sede della politica. Cercò anche di comprendere i gusti musicali della nuove generazioni, sempre con quella fronte corrugata e quello sguardo interrogativo. Che è poi il suo socratico lato da riscoprire e da valorizzare. Non le sue certezze, quasi sempre errate, ma le sue incertezze, la sua innata curiosità, la sua disponibilità al colloquio, lo fanno un uomo da ricordare con simpatia e ammirazione dopo la sua morte, a cent’anni suonati. Un secolo vissuto e segnato anche dalla sua presenza.
Mauro Del Bue
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