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“Cesare Battisti e l’interventismo socialista”, l’intervento di Mauro Del Bue al convegno di Trento dell’11 giugno 2016

12 Giugno 2016 1.161 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Mi complimento col compagno Pietracci per avere promosso questo riuscitissimo convegno sul patriota socialista Cesare Battisti. Si tratta di un doveroso ricordo che io stesso mi ero permesso di sollecitare. Ho il piacere di ritrovare, dopo qualche tempo, un grande amico e compagno di un’intera stagione politica e parlamentare come Mario Raffaelli, che ho avuto modo di ascoltare nella sua esposizione di taglio storico. La nostra generazione è stata abituata a fare politica studiando la storia. E questo perché ogni partito rappresentava un’identità e ogni identità presupponeva la lettura del suo passato. Oggi non è più così e le riflessioni storiche e culturali, quando vengono richieste, sono sganciate dalla politica che diviene così più arida, meno pregnante e avvincente.

Sic rebus stantibus non possiamo che rassegnarci. Anche se possiamo dire oggi che noi siamo socialisti e che Cesare Battisti era un socialista, tracciando dunque un filo di continuità ideale tra lui e noi. Una consolazione che rende meno inutile il nostro impegno, e che anzi lo nobilita ed esalta.

Il tema che ci propone ancor oggi la figura di Cesare Battisti è quello del rapporto tra patria e socialismo, due termini che in molti non hanno saputo o voluto rendere compatibili. E il contrasto del quale segnò, proprio in occasione dell’esplosione del primo conflitto bellico, la crisi del socialismo, con il conseguente de profundis della Seconda internazionale. In Italia, contrariamente agli altri paesi, il socialismo derivò invece proprio dal Risorgimento, e i suoi miti patriottici, mazziniani e garibaldini furono assai più influenti, nella conversione al socialismo, di quanto non fu un marxismo peraltro ancora largamente sconosciuto.

Un partito, nato nell’agosto del 1892 a Genova da uomini che avevano avvertito le forti suggestioni risorgimentali e in parte le avevano vissute in prima persona, non poteva rimanere insensibile dunque ai richiami patriottici dopo l’esplosione del primo conflitto bellico.

Riepiloghiamo i fatti. Il 28 giugno del 1914 si verifica l’attentato di Sarajevo (uno studente serbo uccide l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e la moglie). L’Austria dichiara poco dopo guerra alla Serbia, accusandola direttamente del gesto. A quel punto scattano le clausole dell’Alleanza e dell’Intesa. La Germania è collegata al patto con l’Austria-Ungheria, mentre la Francia è legata a quello con la Gran Bretagna e la Russia. L’Italia, che era nell’Alleanza, non aderisce al conflitto e si tira fuori. Adduce come motivo, o pretesto, della sua posizione il fatto di non essere stata consultata. Così dal luglio del 1914 al maggio del 1915 tutto lo schieramento politico italiano è in preda ad uno scontro sul che fare. Tranne poche correnti conservatrici forte è la tendenza a restare fuori (Giolitti si collocò subito per la neutralità assieme a tutto il Psi) da un conflitto aperto dall’Austria e che l’Italia avrebbe dovuto combattere in suo favore in base alle clausole previste dalla Triplice alleanza. Più attenuata fu l’opposizione a scendere in campo a favore dell’Intesa. Quando fu chiaro che la guerra stava prendendo un verso positivo per le potenze centrali, anche nel Psi il dibattito si fece serrato.

La formula lanciata dal Psi fu quella coniata da Costantino Lazzari (Né aderire, né sabotare”) e la battuta di Turati che parlò del “filo del rasoio” fu tagliente. A giudizio del leader riformista il non aderire era già un po’ un sabotare e il non sabotare era già un po’ un aderire. Nel conflitto e nel linguaggio spesso contorto delle diverse posizioni nel mondo della sinistra dell’epoca si stagliarono tre tendenze favorevoli all’intervento.

1) Quella rivoluzionaria (pensiamo a Filippo Corridoni e ad Alceste De Ambris, sindacalisti dell’Usi che poi vennero cacciati dal sindacato per la posizione interventista, ma anche al giovane Palmiro Togliatti) postulava l’idea che la guerra potesse costituire l’occasione per far scattare la molla della rivoluzione. D’altronde in Russia, nell’ottobre del 1917, non sarebbero stati i militari assieme ai contadini la componente essenziale per la presa del palazzo d’Inverno? Perché mai la stessa cosa non avrebbe potuto verificarsi in Italia? Può spiegarsi cosi anche la decisione del giovane Palmiro Togliatti di partire volontario.

2) Quella post risorgimentale (in particolare sostenuta dai repubblicani, pensiamo al giovane Pietro Nenni, ma anche ai forti richiami lanciati dal fervente comizio di D’Annunzio a Quarto e al suo paragonare l’intervento con la gloriosa spedizione dei Mille, ma anche ai nipoti di Garibaldi, Bruno e Costante, figli di Ricciotti, che partirono subito volontari in Francia assai prima delle “radiose giornate di maggio” e che caddero nelle Argonne, l’uno nel dicembre del 1914 e l’altro nel gennaio del 1915) concepiva la guerra come completamento dell’Unità d’Italia. L’irredentismo di Battisti, che richiamava al dovere di liberare le terre italiane del Trentino, allora sotto dominazione austriaca, si ispirava a questa impostazione, ma si conciliava con una marcata convinzione socialista. Battisti era deputato socialista al Parlamento austriaco e verrà condannato a morte come traditore e impiccato assieme a Fabio Filzi nel castello del Buonconsiglio di Trento dopo essere stato preso prigioniero sul fronte di battaglia.

3) Quella democratica (propria di esponenti di primo piano del Psi, da Bissolati, che assieme a Bonomi, a Cabrini e ad altri era stato espulso dal partito per le sue tendenze filo giolittiane proprio da Mussolini al congresso nazionale di Reggio Emilia del 1912, anche se la goccia fu la sua visita al re dopo uno scampato attentato, ma anche Pertini, Mondolfo, Rosselli) la guerra era conflitto necessario contro le potenze imperialistiche e antidemocratiche. E volgeva lo sguardo anche ai diritti all’indipendenza dei popoli dei Balcani, sottomessi alla duplice dominazione ottomana e austroungarica.

Il tragitto di Mussolini risentì di tutte e tre queste impostazioni. Dopo aver scritto infuocati articoli neutralisti il direttore dell’Avanti, allora su posizioni massimaliste e rivoluzionarie, che aveva promosso con Pietro Nenni la sollevazione della settimana rossa delle Marche, attenuò la sua posizione e con l’articolo del 18 ottobre del 1914 si schierò per “una neutralità attiva e operante”. Se la posizione di Mussolini fosse rimasta quella sarebbe stata simile all’impostazione di Turati che sulla Critica sociale aveva parlato di una “neutralità non dogmatizzante e imperativa”. Capivano i due che, se da una parte, da quella dell’Intesa, stavano le ragioni e da quell’altra, da quella dell’Austria-Ungheria e della Germania, stavano i torti, la neutralità senza aggettivi era un non senso. E rimandava a un’indifferenza sull’esito del conflitto, inaccettabile dal punto di vista politico e morale. Dopo le sue dimissioni da direttore dell’Avanti Mussolini accentuò la sua posizione favorevole all’intervento e dopo la pubblicazione de Il Popolo d’Italia, si schierò decisamente per l’intervento sposando le tesi estreme. E certo approfittò della guerra per far scattare la sua rivoluzione alla quale lo spirito degli ex combattenti diede un contributo essenziale. Dunque il futuro duce attraversò tutte e tre le impostazioni interventiste e sfruttò poi quella più chiaramente funzionale al suo proposito di conquista.

La posizione dei riformisti, e in particolare di Filippo Turati, ma anche, sia pur più venata di condizionamenti etici (l’odio per il sangue versato) di Prampolini, era di decisa diversificazione tra le due guerre. Non solo tra quella combattuta a fianco dell’Austria e quella contro, che però non portavano entrambi ad aderire decisamente all’intervento, ma quella tra guerra di offesa e guerra di difesa. Turati, dopo Caporetto, scrisse con Treves un articolo su Critica sociale il 1-15 novembre 1917 in cui a fronte dell’invasione austro-tedesca che pareva ormai prossima a occupare il Nord Italia e anche Milano affermava “la volontà di combattere, di resistere fino all’estremo”. In due discorsi parlamentari, uno a febbraio e l’altro a giugno del 1918 (quest’ultimo durante la battaglia del Piave) Turati arrivò a sposare decisamente i toni patriottici.

Il congresso socialista di Roma del settembre del 1918, quando era ancora in corso il conflitto, verteva proprio sul tema del rapporto tra proletariato e patria. Ma in verità fu un vero e proprio processo politico a Turati. Quest’ultimo ebbe modo di ricordare un episodio sintomatico della confusione che regnava in casa socialista. A Milano, nel corso di un’assemblea socialista di sezione, Turati aveva sostenuto: “L’indipendenza nazionale è un vantaggio, una forza, una necessità per il proletariato e pel socialismo”. Ma era stato contestato. Aveva ribattuto ai suoi accusatori: “Ma allora voi volete gli austriaci a Milano?”. Fu un’autentica insurrezione. E allora continuò: “Se non li volete li volete cacciare?”. “No, neppure questo”. “Ma infine, li volete o non li volete?. Bisogna pur decidersi. O sì o no. Tutte le opinioni sono rispettabili, tranne il ni, che non è un’opinione”. Tanto che a Milano per metterli alla prova Turati presentò un ordine del giorno, camuffandosi da estremista, in questo senso: “I proletari non hanno patria e se ne infischiano della dominazione straniera.”. Fu un fiasco generale. Lo votarono in dieci su trecento. Ancor più incalzante domandò allora quale poteva essere la soluzione e gli si rispose: “la passività rassegnata”. “Ahimè”, concluse Turati, “io ho l’impressione che non si sarebbero trattenuti gli austriaci al di là del Piave con la semplice passività rassegnata o disciplinata. Per combattere bisogna combattere, per difendersi bisogna non pigliarle. E la passività, disciplinata o no, è esattamente l’opposto dell’attività che occorre in questo casi”.

Inutile ricordare nel dopoguerra gli errori del Psi suggestionato dalla rivoluzione russa, senza sensibilità, anzi con aperto ostracismo, nei confronti dei combattenti, con le bandiere rosse al posto di quelle tricolori issate nei comuni conquistati nel 1920, mentre l’anno prima socialisti e popolari che avevano raggiunto, anche grazie al sistema proporzionale, la maggioranza assoluta dei seggi, non vollero formare una coalizione di governo, con la maggioranza dei socialisti che al congresso di Bologna scelse l’adesione alla Terza internazionale, la prospettiva della rivoluzione armata e della dittatura del proletariato in salsa sovietica, mentre i riformisti rimasero in netta minoranza, senza possibilità di incidere e con la scure dell’espulsione decretata da Mosca sul loro capo.

Ho avuto modo di rintracciare un bel discorso di Leonida Bissolati che nel novembre del 1916 commemorò Cesare Battisti a Cremona in un teatro Verdi colmo all’inverosimile. Bissolati sostenne le ragioni dell’intervento. A coloro che opponevano l’idea che i socialisti avrebbero dovuto “starsene tranquilli e beati a contemplare, quasi fosse stato possibile, l’oceano in tempesta dal lido sicuro, perché le moltitudini che hanno per vessillo l’internazionale e non hanno per patria che l’umanità, mescolandosi a lotte armate, a lotte nazionali, van contro i propri interessi, van contro i propri ideali”, contrappone proprio Cesare Battisti, perchè “socialista egli era, di pensiero, di sentimento, di azione.” E ancora: “L’apostolato socialista di Cesare Battisti diventava apostolato di italianità, in questo egli bene intuiva che lo sviluppo economico, morale, politico del suo Trentino non avrebbe potuto effettuarsi mai se non a patto che la vita del Trentino si fondesse colla vita dell’Italia”. Certo, precisa Bissolati, noi e Battisti “avevamo fatto altro sogno. Credevamo che per giungere ad una salda pace internazionale non fosse necessario passare traverso tanto orrore e tanto sangue”. Bissolati ricorda i convegni internazionali ai quali lui stesso prese parte per fissare intese con l’Austria-Ungheria, affinché si affrancasse dal gioco germanico, rinunziasse a disegni di espansione a danno dell’indipendenza dei popoli balcanici, perché garantisse i diritti degli italiani che vivevano nei territori dell’Impero”. Poi il miliardo di spese militari straordinarie votato anche dai socialisti tedeschi e il colpo di cannone dell’ultimatum alla Serbia. Infine l’aggressione al Belgio, mirando al cuore della Francia, l’irruzione in Serbia. L’Italia si dichiarava neutrale, “ma già quella neutralità”, dichiara Bissolati, “era il principio dell’intervento”. Di Battisti Bissolati volle infine ricordare come “gli amici, i commilitoni non volevano che andasse alle prime linee. Lo consideravano una bandiera che si tiene al centro delle forze combattenti. Ma lui non volle. Volle sin dal primo giorno della guerra essere fra i suoi, fra i nostri alpini, fra i figli delle nostre montagne, tra quei dolci e tranquilli e pur così terribili territori”. Bissolati, ma ancor più Salvemini, ricordano come Battisti avrebbe dovuto essere il dirigente socialista a cui affidare un ruolo di guida nel dopoguerra. Salvemini, il socialista col quale Battisti aveva fatto amicizia ai tempi del suo soggiorno fiorentino ai tempi dell’Università, scrisse una lettera dopo il martirio di Battisti a sua moglie Ernesta nella quale accenna proprio al ruolo di primo piano che Battisti avrebbe dovuto assumere nel dopoguerra, in un partito socialista e in un’Italia che non sarebbero stati capaci di rendere compatibile l’amor patrio con la democrazia e il socialismo. La figura di Battisti, la sua fede socialista, la sua coerenza italiana, anche la sua età, potevano consentirgli di aggregare attorno agli ideali socialisti una moltitudine di combattenti. In fondo, con la classe liberale ormai al tramonto, la sintesi che non riuscì tra socialismo e patriottismo avrebbe potuto giovarsi dell’apporto di coerenza e di credibilità di un vero eroe di guerra. Salvemini ritiene la perdita di Battisti irreparabile.

Infine un accenno a una vicenda accaduta nella mia città, Reggio Emilia, nel febbraio del 1915, in occasione di un comizio interventista di Cesare Battisti e poi un accenno a un’assurda decisione di qualche anno orsono del Comune di Reggio. Battisti fu chiamato in città dalle associazioni interventiste nell’ambito di un programmato giro d’Italia a favore dell’intervento che il governo sceglierà solo nel maggio successivo. Vi furono gravi incidenti, molti giovani neutralisti avevano circondato il teatro Politeama Ariosto dove si teneva l’iniziativa. I convenuti furono fatti oggetto di insulti e violenze diverse. Vennero lanciati sassi ai quali la polizia volle rispondere con le fucilate. Due giovani rimasero sul tappeto senza vita. Prampolini, il giorno dopo, in un comizio improvvisato in piazza, volle condannare sia le sassate sia le fucilate, mentre Zibordi ebbe a scrivere su La Giustizia: “Questa propaganda di violenza che esalta la lotta feroce, che inneggia alla forza sopra al diritto, questa propaganda parlava ieri sera al cuore di quei giovani che dicevano: “Noi qui siamo i più forti, dobbiamo impedire agli altri di fare il comizio”. Io dicevo: “Ciò non è da socialisti. Socialismo è libertà, è civiltà, non sopraffazione”. Forse qualcuno se lo è dimenticato”. Fatto sta che decenni dopo a Reggio Emilia, in base a una forte ignoranza della storia, forse assai più che non a seguito di una sua deformazione, il Comune di Reggio, mentre ha permesso, com’era doveroso, la posa di una lapide a ricordo dei due giovani uccisi, ha deciso di sostituire il nome di Cesare Battisti a piazza del Monte ritornando alla sua denominazione originaria. Ho protestato e protesto tuttora. Fra poco inizieremo la raccolta delle firme perché si ritorni alla vecchia intestazione. Cesare Battisti, il suo nome, il suo sacrificio, la sua lotta per il progresso, la libertà, la civiltà, non meritano questo assurdo affronto. I socialisti reggiani lo promettono ai socialisti trentini che di Battisti sono eredi naturali.

 

 

 

 

 

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