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Nel giorno del centenario del martirio di Cesare Battisti

12 Luglio 2016 992 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Ho avuto modo di ritornare più volte sulla figura di Cesare Battisti, sulla sua funzione di socialista nella terra di Trento, sul suo amore per il suo territorio che mostrò sia da esponente politico sia da geografo, sul suo irredentismo e la scelta di combattere per l’italianità del suo Trentino fino all’estremo sacrificio, fino alla morte per impiccaggione decretata dagli austriaci, per tradimento, perchè Battisti era deputato socialista al Parlamento di Vienna.

Cesare Battisti, la sua integerrima figura e la sua scelta di combattere, rimandano al tema del rapporto tra socialismo e patria che fu centrale prima e dopo la nascita del partito del lavoratori che sorse a Genova nell’agosto del 1892. In fondo i primi socialisti erano stati allevati al culto di Garibaldi e Mazzini e alcuni di loro avevano combattuto nelle ultime guerre d’indipendenza in Italia e all’estero. Quando esplose il primo conflitto mondiale e soprattutto quando l’Italia, nel maggio del 1915, scelse di schierarsi, come già avevano fatto i nipoti di Garibaldi e figli di Ricciotti, confluiti in Francia, imitando dopo oltre quarant’anni l’impresa dei Vosgi del nonno, a fianco delle democrazie europee e contro i reazionari imperi centrali, non furono pochi i socialisti interventisti.

Lasciamo perdere il caso Mussolini, che pure agli inizi aveva sposato la tesi più neutralista, ma bisogna ricordare che partirono volontari per il fronte uomini come Gaetano Salvemini, Leonida Bissolati, il repubblicano Pietro Nenni, i giovani Sandro Pertini e Palmiro Togliatti. In più, nelle convinzioni di Battisti vi era la particolare situazione del Trentino italiano che la terza guerra d’indipendenza non aveva saputo o potuto risolvere. Battisti si arruolò come volontario in una compagnia di alpini. Bissolati volle ricordare come “gli amici, i commilitoni non volevano che andasse alle prime linee. Lo consideravano una bandiera che si tiene al centro delle forze combattenti. Ma lui non volle. Volle sin dal primo giorno della guerra essere fra i suoi, fra i nostri alpini, fra i figli delle nostre montagne, tra quei dolci e tranquilli e pur così terribili territori”.

Bissolati, ma ancor più Salvemini, ricordano come Battisti avrebbe dovuto essere il dirigente socialista a cui affidare un ruolo di guida nel dopoguerra. Salvemini, il socialista col quale Battisti aveva fatto amicizia nei mesi del suo soggiorno fiorentino ai tempi dell’Università, scrisse una lettera dopo il martirio di Battisti a sua moglie Ernesta (il suo fu un esempio di coerenza socialista a fronte del tentativo fascista si impadronirsi della memoria del marito e poi di fronte alle condivise rivendicazioni del Sud Tirolo) nella quale accenna proprio al ruolo di primo piano che Battisti avrebbe dovuto assumere nel dopoguerra, in un partito socialista e in un’Italia che non sarebbero stati capaci di rendere compatibile l’amor patrio con la democrazia e il socialismo. La figura di Battisti, la sua fede socialista, la sua coerenza italiana, anche la sua età, potevano consentirgli di aggregare attorno agli ideali socialisti una moltitudine di combattenti. In fondo, con la classe liberale ormai al tramonto, la sintesi che non riuscì tra socialismo e patriottismo avrebbe potuto giovarsi dell’apporto di coerenza e di credibilità di un vero eroe di guerra. Salvemini ritiene la perdita di Battisti irreparabile. E probabilmente lo fu.

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