Mosul o morte
Continua l’avanzata per la conquista definitiva dei territori dello stato islamico. Dopo aver conquistato la città simbolo di Dabik dove, secondo la superstizione religiosa, avrebbe dovuto svolgersi la battaglia finale tra musulmani e cristiani, quella di Mosul è, assieme alla successiva su Rakka, una battaglia per sferrare il colpo decisivo al territorio jidaista. Mosul è in questo momento una città carcere dove sono rinchiusi ben 1 milione e mezzo di abitanti. Scrive il Guardian che i terroristi dell’Isis stanno impedendo a chiunque di lasciare la città. I jihadisti hanno allestito posti di blocco sulle strade e fatto saltare le case di quelli che sono già fuggiti, anche come deterrente alla fuga. Il timore è ora che l’Isis usi, come già accaduto a Manbji, Falluja e Sirte, i civili come scudo umano.
Le truppe di terra curde e sciite irachene, con l’aiuto di un contingente sunnita armato e addestrato in Turchia e dell’aviazione americana, stanno combattendo una guerra giusta contro i tagliatori di teste. La prima cadde proprio a Dabik ad opera del baronetto inglese trasformato in boia. Il problema che si pone per loro è quello stesso che si è posto, ma certo non risolto, dai russi e dal governo siriano a proposito di Aleppo. E cioè come salvaguardare dagli effetti ferali degli attacchi militari la popolazione civile, oltre al secondo e inestricabile nodo, politico, sul come governare il dopo guerra.
Veniamo al primo punto. E’ evidente che un’azione dal cielo a suon di bombe, con un milione e mezzo di civili dislocati in luoghi strategici della città, si porterebbe dietro una massa di tragedie umane, troppi morti innocenti e tra questi moltissimi poveri bambini. E’ un costo troppo alto anche per una guerra giusta. Molto meglio la tattica che gli americani pare suggeriscano e cioè quella di un attacco tutt’altro che lampo, fatto di iniziative belliche prevalentemente di terra e successive. Personalmente sono ormai anni che mi auguravo una massiccia offensiva di terra della comunità internazionale attraverso un coinvolgimento sia degli Usa e che della Russia.
Non ho mai sopportato il pacifismo, che spesso sconfina nell’indifferenza. Oltre al chiedersi perché mourir pour Danzique, costoro si sono chiesti forse a cosa è costata l’indifferenza pacifista in Algeria, in Bosnia, in Nigeria e in altre nazioni africane? C’è una sorta di ponziopilatismo misto a un inconsapevole razzismo che spinge alla logica della non interferenza. Noi non dobbiamo rischiare le nostre vite, non quelle degli altri, soprattutto se sono arabe o africane. Queste possono anche essere macellate. E’ un primo girone che mi risulta insopportabile: il pacifismo mai interventista. Questo naturalmente non esclude le responsabilità occidentali in taluni conflitti e in particolare quelle americane, vedasi l’Iraq e la Libia, anche se occorre sempre ricordarsi che l’Isis nasce nella guerra civile siriana e la Siria non era stata invasa da nessuno.
Poi c’è un secondo girone che potremmo chiamare dell’egoismo parapacifista. Quello che consiglia sempre di usare strumenti che mettano a rischio quasi zero i nostri militari, usando dunque le azioni dal cielo che bombardando non sempre in modo intelligente mettono invece a rischio le vite innocenti altrui. Questo egoismo parapacifista è sempre correlato al grado di consenso che un’operazione militare può suscitare in patria. Se poche o nulle sono le perdite umane dei connazionali i consensi si allargano, in caso contrario aumentano i dissensi, le proteste, le agitazioni. Che poi muoiano innocenti in campo avverso purtroppo importa poco o nulla. Quali proteste ha provocato nel mondo l’orribile carneficina di Hiroshima e Nagasaki?
Oggi è questo il grande problema che sta di fronte alla comunità internazionale. Come abbattere lo stato islamico senza provocare una strage degli innocenti. E poi ne esiste un secondo che è ineludibile. Le guerre sono due, parallele. Oltre a quella che è iniziata oggi alle porte di Mosul in Iraq, ce n’è un’altra, in Siria, sempre contro gli stessi nemici, ma combattuta con scopi opposti. Siria e Russia vogliono la sconfitta di tutta la resistenza siriana, anche di quella che combatte contro l’Isis a Mosul. E qua e là (pensiamo alle truppe inviate dalla Turchia) emergono forti i contrasti tra sunniti e sciiti. Il problema della soluzione politica del dopoguerra non é facile se di guerre, contro lo stesso nemico, se ne combattono due. L’accordo con la Russia per convincerla al dopo Assad non si agevola ammassando truppe nelle repubbliche baltiche come se fossimo alla vigilia di un nuovo trentanove. Cosi anche la soluzione politica siriana rischia maledettamente di complicarsi.
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