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Andrea Chenier: trionfo inaspettato

8 Dicembre 2017 986 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Yusif Eyvazov non era solo destinato alla decapitazione come Andrea Chenier. In molti dubitavano delle sue qualità vocali, soprattutto nell’interpretazione di una parte ardua per un tenore, che deve assemblare doti di estensione acuta e di registro medio-basso da tenore lirico spinto o drammatico. In fondo é il marito della grande Anna Netrebko, il soprano più celebre del momento. Un signor Netrebko, dunque, magari imposto come spesso succede nei teatri d’opera dalla moglie famosa. Molte sono le coppie scritturate per scritturarne una sola unità. Per di più alla Scala, e alla prima, e con un’opera che si presta alle contestazioni di un loggione che non ha mai perdonato nulla. Così, oltre alla curiositá di asoltare l’opera di Umberto Giordano che tornava nel teatro milanese nel giorno di Sant’Ambrogio dopo 32 anni (l’ultima fu nel 1985 diretta proprio dal giovane Chailly), tutti gli occhi (e soprattutto le orecchie) erano puntate su di lui, su questo ragazzone azero quarantene chiamato all’esame di maturità.

Dunque cominciamo da lui. Da Yusif, signor Netrebko un cavolo. Preparato come uno studente che sa di giocarsi l’esame della vita, anticipato da una brillante prova di Chenier a Praga (poi adeguatamente reimpostato, lo ha rivelato lui stesso, da Chailly) il signor Eyvazov ha superato la prova a pieni voti. Anzi, é stato l’autentico protagonista della serata. Non che lei sia divenuta d’incanto la signora Eyvazov, ma tra i due é stato Yusif a suscitare i maggiori consensi e tributi di meritati applausi. Andrea Chenier si attende generalmente al varco della romanza del primo atto: “Un dì all’azzurro spazio…”. Diciamo che l’originale scelta di concepire il tessuto musicale come un continuum inarrestabile pareva soprattutto un prestesto per proteggere i cantanti (soprattutto il tenore, quello più esposto) da eventuali contestazioni. Così alla fine della prima romanza, superata di slancio, mettendo in mostra, al di lá di qualche imperfezione di emissione vocale, un’inaspettata autorità e un timbro di eccezionale robustezza, il silenzio si presentava come un punto interrogativo che solo la nostra sensibilità di melomani incalliti ha saputo sciogliere postivamente. Poi il trionfo a fine atto, che si é ripetuto fino alla fine.

Dalla Netrebko solo conferme. La sua voce si é parecchio ingrossata e presenta due timbri diversi, ma mai distaccati e antitetici, e il suo impasto vocale resta cosi eccellente nel registro medio-basso che non ha alcun paragone nei soprani lirici. Come tutti i più grandi del Novecento potrebbe tranquillamente cantare da mezzo soprano, da soprano lirico e drammatico. Di Luca Salsi, il baritono di Parma, che Muti ha voluto lanciare nei grandi palcoscenici, si può solo dir bene. All’inizio forse un po’ timido ed emozionato, si é poi via via sciolto e nella sua romanza “Nemico della patria”, quando Gerard, sempre alle prese col tentativo di conciliare rivoluzione fallita e amore non corrisposto, poi generosamente portato a salvare Chenier, si ripega su se stesso, offre un’interpretazioe di eccelsa qualità. L’orchestra della Scala diretta da Chailly accompagna il canto, lo protegge, ne disegna un affesco dai colori vivi, come pretende una musica cosi esplosiva, quasi mai solo accennata, anzi spesso ripetuta nei suoi wagneriani leit motiv e accesa per mostrare la portata dei sentimenti.

Siamo, all’inizio, nel periodo pre rivoluzionario, nella reggia di Coigny con la nobilità e la chiesa imbelletati e ingessati, cosi li vuole il regista Martone, poi due anni dopo, in pieno terrore, e anche i rivoluzionari finiscono come esseri fissati a mo di manichini, senz’anima, senza sentimenti, senza umanità. La rivoluzione ha solo uno squarcio di grande passione e di tragica generosità ed é quando Marion cede alla patria, in guerra e accerchiata dalle potenze controrivoluzionarie del resto d’Europa, l’ultimo dei suoi figli, anzi il figlio di suo figlio già morto per la rivoluzione. E’ una parentesi in cui il sacrificio pare di dimensioni bibliche. La regia di Martone accompagna lo svolgimento della trama con intelligenti intuizioni. Discutibile solo quel Robespierre con una testa mozza in mano. E cosi quest’opera verista di un Giordano neppure trentenne, andata in scena la prima volta alla Scala nel 1896, torna di prepotente attualità. Hanno tentato per decenni, circoli ed elites dell’intellettualitá musicale, di confinarla in soffitta, come cosa vecchia e da dimenticare come e forse ancor più di tutte le opere veriste. Il verismo é stato invece rilanciato, se Dio vuole. Poco conta che Malher, che ha personalmente diretto quest’opera alla prima berlinese, ne avesse apprezzato (contrariamente a quanto fece con la pucciniana Tosca nel 1900) il tessuto musicale. Ragioni di scelta per una più accentuata modernità armonica (la mancanza di dissonanze) e questa drammatica antitesi con la rivoluzione o meglio coi suoi effetti più crudeli, ne avevano spesso sconsigliato l’esecuzione. Meno male che gli anni passano e la musica no. Così possiamo finalmente gustarci un Andrea Chenier senza farci scrupoli. Con emozione viva.

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