Intervento in Aula sul Depf
Sig. presidente,
La nostra delusione sul Dpef non è relativa a quel che vi è scritto, ma a quel che scritto non è. Difficile infatti non condividere l’analisi sulle difficoltà economiche italiane, e così pure impossibile non concordare sugli obiettivi di governo dell’economia. Sviluppo, equità e risanamento rappresentano parole d’ordine che non possono non unificare quest’Aula, nonché tutte forze sociali del Paese. D’altronde è assai difficile individuare qualcuno che, di converso, proponga “recessione, diseguaglianze e indebitamento”. Un noto giornalista, con lo pseudonimo da capo indiano d’una tribù a noi amica ha recentemente scritto: “Quel documento è il trionfo di monsieur De La Palisse, la celebrazione delle ovvietà e delle buone intenzioni universalmente condivise”.
Certo condivise dalla maggioranza “democratica” che vuole farsi carico dei problemi del Paese e non certo da quelle fasce antisistemiche che pure sono presenti e si sono manifestate recentemente in occasione del dibattito sulle missioni italiane all’estero. Ciò che è legittimo e anche rispettabile se esprime convinzioni personali radicate, sofferte crisi di coscienza, dissenso coerente. Meno lo è se l’attuale maggioranza fa affidamento su queste per governare l’Italia di oggi.
Una volta, signor ministro Padoa Schioppa, si parlava di compatibilità come di un avversario di classe, si sfidavano le imprese proponendo il salario come variabile indipendente, si spingevano i comuni a fare bilanci in rosso che venivano definiti di “lotta”. Osservo che una fetta assai rappresentativa di questi maestri d’una rivoluzione fortunatamente impossibile è oggi al suo fianco e nell’altra aula del Parlamento è addirittura posta in condizioni di determinanza numerica. A costoro interessa soprattutto portare a casa dei risultati. Per l’amor di Dio, faccio politica da troppi anni ormai per non sapere che la politica è fatta anche di trofei. Sappia che il prossimo Afghanistan sarà la manovra economica. E me ne dispiace. Perché credo ancora che sulle grandi questioni di politica internazionale e di politica nazionale si dovrebbe sviluppare un effettivo dialogo tra maggioranza e minoranza, come sostiene, giustamente, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Se rispetto al dialogo si preferisce la via dei voti di fiducia, ciò vuol dire, da un lato, che la maggioranza sceglie di andare avanti da sola ma, dall’altro, che essa è così consapevole della sua debolezza, frutto delle sue divisioni, che non può correre il rischio, sulle questioni più rilevanti, di una conta entrando nel merito dei problemi.
Il Dpef presentato individua i quattro settori in cui intervenire, e cioè quelli della previdenza, della sanità, del pubblico impiego e degli enti locali.
Difficile immaginarsene altri, se si parla di risparmio di risorse pubbliche. Il problema è che dopo aver individuato i settori, non si dice con quali strumenti si intende procedere per raggiungere gli obiettivi fissati.
Si può, a buona ragione, sostenere che tanto delle previsioni del Dpef son piene le fosse, e si può anche aggiungere che dopo aver tratteggiato una strategia il tutto è ovviamente rinviato alla nuova finanziaria.
Bene, obiezione accolta, ma allora non vale la pena riflettere sulla l’efficacia di un documento del genere, oggi previsto, ma che da più parti viene ritenuto tutto sommato inutile?
Oltretutto tutte le cifre che vengono segnalate nei vari Dpef del passato si sono rivelate piuttosto fallaci.
Entriamo più nel merito dei problemi che il Dpf si limita a segnalare.
Non v’è alcun dubbio che il disavanzo crescente sia una palla al piede dello sviluppo e anche dell’equità. A tale proposito vorrei qui richiamare una vicenda che risale agli anni del governo Prodi, cioè al triennio 1996-1999. Effettivamente in quei tre anni si verificò la riduzione del deficit di 6 punti di Pil. Ma cinque punti furono l’effetto del calo internazionale dei tassi e un punto della riduzione della spesa in conto capitale.
E vien spontaneo anche chiedersi perchè in quel triennio nessun intervento fu posto in essere in quegli stessi settori che oggi vengono richiamati come aree di necessaria riduzione di spesa.
Non è un caso che, finito l’effetto positivo della riduzione dei tassi, nella primavera del 1999, col governo D’Alema ancora in carica il deficit ricominciò a salire arrivando poi alla fine del 2001, col governo Berlusconi già in itinere, al 3,2, accertato dalla commissione europea.
Questa esperienza consumata direttamente del governo Prodi avrebbe forse dovuto consigliare di evitare il rinvio alle calende greche delle decisioni da intraprendere e di individuare subito le riforme da mettere in campo.
Attendiamo con fiducia, al di là della fiducia, di venire presto a conoscenza delle intenzioni dell’esecutivo.
Ciò che fin d’ora ci preoccupa, leggendo il documento presentato, è la previsione della crescita, o meglio l’obiettivo di crescita, con le manovre previste nei quattro settori. Vi sarebbe una crescita nei cinque anni futuri che oscilla tra l’1,2 e l’1,7, anche se il ministro in televisione ha parlato della possibilità di raggiungere il 2%.
Sono cifre insufficienti per combattere l’indebitamento e conseguire l’equità. Il problema di fondo è lo sviluppo. Noi lanciamo una vera e propria crociata per lo sviluppo. Senza sviluppo avremo non solo problemi di occupazione ( l’aumento dell’occupazione con la recessione, o anche a fronte di una crescita debole, può essere perfino una malattia), ma anche meno risanamento e meno equità sociale. Negli ultimi dieci anni l’Italia è cresciuta dello 0,6-0,7 in meno dell’area dell’euro. Parliamo degli ultimi dieci anni, con governi di colore opposto dunque. Evitiamo, per questo di fare della politica economica uno strumento di speculazione politica. E in questi dieci anni l’indebitamento dell’Italia ha sofferto. Difficile, anzi impossibile, oggi risanare senza la crescita economica o con una crescita economica debole e sempre al di sotto della media europea. Una piccola azienda non può pensare di pagare i suoi debiti se non aumenta il suo fatturato, a meno di non affamare i suoi operai e chi la dirige.
Non si può dunque anteporre il risanamento allo sviluppo, pena la minore credibilità al dialogo con le parti sociali, e la richiesta di sacrifici e di tagli.
Noi proporremo strumenti specifici in linea con la strategia di Lisbona (recupero di competitività, ricerca e innovazione).
Già in occasione della finanziaria 2005-2006 i socialisti e i democristiani proposero un emendamento per la diminuzione del cuneo fiscale, ma maggioranza e minoranza votarono contro. Poi, si sa, le idee in Italia cambiano ad un ritmo piuttosto veloce. Peccato che nessuno mai ricordi i comportamenti del passato. Ci vorrebbe un diritto d’autore, come nel mondo dello spettacolo, o un brevetto delle idee,
Anche adesso proporremo misure per il recupero della competitività. Sapendo però che la riduzione del cuneo fiscale serve più alle grandi aziende che alle piccole (il 95%), per le quali è sì utile ma non determinante ai fini del recupero della loro competitività sul mercato internazionale.
L’Italia ha progressivamente perso quote di commercio internazionale: dal 4,6 del 1995 si è passati al 3, 5 del 2000 fino al 2,7 del 2005.
Aggiungiamo che, a fronte di una crescita dello 0,6-0,07 inferiore degli altri paesi e con un perdita di quote di commercio internazionale pari quasi al 2%, il governatore della Banca d’Italia ci ha recentemente ricordato che la produttività del lavoro negli ultimi dieci anni ha perso un punto di crescita all’anno
Aggiungiamo anche che la diminuzione della disoccupazione, in linea con il minimalismo espresso in tutto il documento, minimalismo che non è l’alternativa al massimalismo, ma al riformismo, viene stimata nell’ordine dello 0,9 in cinque anni, con una previsione di disoccupazione pari al 6,7% nel 2111.
Da tutti questi dati non può che emergere la strategia di un governo che affida ancora ad una politica dei due tempi, prima il risanamento e poi lo sviluppo, la sua sorte.
Ne è testimonianza una misura prevista nel cosiddetto decreto Bersani, che riguarda la tassazione del mercato immobiliare con efficacia addirittura retroattiva, misura che metterebbe in ginocchio il settore e porrebbe un vero e proprio mattone sulla ripresa. Adesso si sono levate voci di disponibilità a rivedere il testo. In questo davvero nuovo metodo, in base al quale prima si vara un provvedimento poi si consultano le parti sociali e si procede ad altre misure, vedi il caso dei taxisti, o c’è solo superficialità o c’è mancanza di adesione alla linea che sancisce la priorità dello sviluppo. E questo non può che preoccupare.
L’allegato al Dpef sulle infrastrutture tenta un aggancio con le previsione della legge obiettivo del 2001 e con le realizzazioni del governo Berlusconi. Se c’era un settore in cui lo sviluppo era praticamente vicino allo zero questo, tra il 1995 e il 2001, è stato proprio quello delle opere pubbliche. Negli ultimi cinque anni si sono realizzate, cantierate o affidate opere per l’importo di circa 51 miliardi di euro con risorse pubbliche, private e comunitarie. E questo ha generato coltre lo 0,5 di Pil annuo, contribuendo a tenere l’Italia lontana dalla recessione. Adesso il nuovo governo deve fare i conti, anche in questo settore, con le sue divisioni. In particolare con quelle relative alla grandi opere. Scartato il ponte sullo Stretto, è sub-iudice la ferrovia Torino -Lione, opera definita strategica dalla Comunità, nell’ambito del corridoio 5 che da Lisbona raggiungerà Kiev. Vedremo se anche nei confronti di decisioni su questi temi il governo vorrà imporre il voto di fiducia, ammesso che superi lo scoglio della finanziaria.
Sarebbe un ulteriore elemento di debolezza e di inadeguatezza. Una volta Giulio Andreotti disse: “Meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Non vorremmo che il governo Prodi divenisse così tanto andreottiano, dopo avere negato al vecchio statista l’onore di ascendere al primo gradino del Senato. Noi manterremo il nostro atteggiamento costruttivo. Sui temi più importanti che interessano l’Italia noi contribuiremo con idee e proposte. Se la maggioranza non si blinderà per mascherare la sua debolezza, se non si trincererà in una sorta di ordine di servizio, siamo pronti a un dialogo che può divenire fecondo e utile alla soluzione dei gravi problemi che ci affliggono.