Intervento sulla finanziaria
Sig. presidente,
Anche a coloro, come noi, che a più riprese hanno manifestato disponibilità al dialogo e volontà di condurre un’opposizione non precostituita, anche a noi, signor presidente, è subentrato scoramento e sconcerto a fronte del comportamento del governo in merito alla legge Finanziaria
Avrebbero oggi buon gioco i partiti dell’opposizione a svolgere la loro funzione. Basterebbe si limitassero alla raccolta di tutte le dichiarazioni, le interviste, le lamentele, le dissociazioni, le minacce di dimissioni, i litigi, le manifestazioni di protesta, e addirittura di autoprotesta, di esponenti del governo e della maggioranza, per motivare e sostanziare una critica fondata e severa.
Il sindaco di Bologna Sergio Cofferati ha sostenuto in un’intervista che cito testualmente: “I nuovi Robin Hood non solo costringono noi sceriffi di Nottingham a scegliere tra meno servizi e più tasse, ma introducono pure forti limiti all’indebitamento per investimenti”. Certo il sindaco di Bologna dev’essere in fase di costante revisione se arriva a ipotizzare una grande riforma del “suo” sindacato fino a concepirne un allargamento al lavoro autonomo e ai piccoli imprenditori. Si può commentare che forse è davvero la tonaca che fa il monaco oppure rilevare, alla Winston Churchill, che solo gli imbecilli non cambiano idea. Ma che dire di Massimo Cacciari, che ha partecipato ad un manifestazione di protesta contro la Finanziaria in Veneto e ha accusato il governo e la sua maggioranza addirittura di non avere una cultura moderna del lavoro e di non comprendere la situazione economica del Nord Est? Poichè a questa valutazione si è subito associato il presidente della Provincia di Milano Pennati la critica si allarga anche alla mancata comprensione del Nord-Ovest, cioè della parte più produttiva del Paese, mentre Chiamparino, sindaco di Torino, ormai accusa apertamente il governo di aver rinunciato alla Tav in val di Susa, favorendo un altro corridoio, con evidenti, incalcolabili svantaggi per l’intero Nord Italia. Le critiche sono state assorbite dall’accordo intervenuto tra governo ed enti locali e dagli emendamenti forniti dal governo in materia? Neanche per idea. Anzi Cofferati ha testualmente insistito: “Gli emendamenti proposti dal governo sono incoerenti rispetto all’intesa raggiunta a Palazzo Chigi il 10 ottobre”. Ancora delusione e proteste, dunque.
Il segretario della Uil Luigi Angeletti, da parte sua, ha rilevato, con profonda amarezza, che il taglio del cuneo fiscale non è stato praticato in coerenza con gli accordi sindacali. Il governo, in sostanza, coerente con la promessa elettorale, governo che non sempre ha voluto mantenere la parola data, come ad esempio sull’aumento delle tasse che s’era ufficialmente impegnato a non praticare, ha inserito in Finanziaria il taglio di cinque punti di cuneo fiscale, dei quali tre sarebbero andati alle imprese e due ai lavoratori. Tre punti alle imprese? Certo, ma a quali? In Italia oltre il 90 per cento delle imprese sono considerate medio-piccole e queste già godono di una parziale defiscalizazzione del costo del lavoro. I tre punti non incideranno sul loro costo del lavoro che in misura ridotta, secondo i calcoli di un noto economista che si firma con uno pseudonimo da capo tribù indiana, “non più di un punto percentuale”. Se vi aggiungiamo che il taglio si pratica solo ai contratti a tempo indeterminato e che soprattutto nelle piccole aziende si usano i contratti a tempo determinato, il vantaggio per le aziende medio-piccole rischia di essere molto vicino a zero. Poiché, poi, la riduzione avviene sulla mass imponibile del prelievo dell’Irap il costo del lavoro per unità di prodotto resta pressoché uguale. E i lavoratori? Poichè la scelta è stata quella di spalmare i due punti di cuneo fiscale sull’Irpef di tutti i lavoratori la manovra di recupero avvantaggerà minimamente i lavoratori dipendenti e finirà per recare qualche piccolo vantaggio anche a quei lavoratori autonomi che contemporaneamente vengono additati come evasori fiscali. Un bel pasticcio.
Come è un bel pasticcio questo articolo 53 della legge, prima annunciato e compreso in Finanziaria, con vasto potere di legiferazione attribuito al ministro dell’Economia ed espropriazione assoluta del Parlamento poi, emendato in Commissione e criticato dai ministri e in particolare dal vice presidente del Consiglio on. D’Alema, che ha ufficialmente richiesto di rivedere la manovra sui tagli ai ministeri.
Siamo talmente abituati al cambiamento che non ci stupiamo più di nulla. Nemmeno del fatto che un ministro aderisca ad una manifestazione di protesta contro il governo, peraltro promossa da un partito che ne fa parte e alla quale hanno subito inviato la loro adesione altri due partiti di governo, per autoprotestare. E che ricorda per metodo, la decisone di due autorevoli esponenti comunisti del governo D’Alema di recarsi a Belgrado a solidarizzare con coloro che erano bombardati dal governo del quale essi stessi facevano parte. La commedia della politica a volte è davvero irresistibile.
Signor presidente,
a fronte di questa Finanziaria cosa può dire un parlamentare che ragioni? Non ne conosciamo ancora il testo definitivo. Avete proposto una legge cantiere, una legge a la carte, dove ognuno di voi ha potuto scrivere, emendare, mutare tutto quel che ha voluto o potuto. Una finanziaria scritta a mille matite, e per questo senza colore. Una finanziaria alla quale, come è stato ricordato da uno di voi, manca l’anima. Per questo personalmente non condivido l’idea che la manovra sia di stampo vagamente massimalista o addirittura classista, come è stato suggerito da qualche parte della minoranza parlamentare. Magari, almeno avrebbe un’identità. No, la manovra è senza identità e si manifesta come lo specchio della maggioranza. Un mosaico di gruppi politici con spinte diverse e contraddittorie. Una maggioranza affettata non può che fornire un affettato di finanziaria. Solo in una finanziaria così si può ritrovare, esaltando la sua eterogeneità, la maggioranza che sostiene il governo. Non ci sono vincitori, non ci sono vinti e la pax di Villa Pamphili lo garantisce. Il problema è che mancano perni a cui agganciarsi. Non ci sono neppure dati sufficientemente chiari.
Rispetto alla manovra, anzi, noi ci poniamo ancora interrogativi attinenti al quanto, al cosa e al come, cioè alla sua entità, al suo reale contenuto, alle metodologie scelte per elaborala e farla approvare dal Parlamento.
Il quanto è tuttora indecifrabile. Secondo gli uffici della Camera la manovra è valutata 40 miliardi di euro, secondo i dati forniti dal governo essa rimane a 34,7 miliardi. Il mistero delle cifre preoccupa ancora di più quando alla luce degli emendamenti, anche di quelli di esenzione, il totale non cambia mai. Possibile che i ragionieri non facciano i conti con esattezza? Eppure la matematica non è un’opinione. Lo sconcerto aumenta se si rapportano i dati al dibattito politico. A tarda estate la manovra che doveva essere di 32 miliardi, era contestata dall’estrema sinistra, che parlava di una correzione al ribasso e sotto i 30 miliardi. Perchè essa stessa ha invece accettato una correzione, una forte correzione, al rialzo? Probabilmente perché nella manovra sono state accolte alcune sue tesi, che sono talmente rilevanti da farle dimenticare l’entità dell’operazione. Il fatto che non si parli di previdenza ad esempio, nonostante nel Dpef la si sia considerata una delle quattro materie su cui intervenire, e si rimandi la riforma delle pensioni ad un domani imprecisato e comunque tale da rinviare l’inevitabile conflitto tra riformisti e conservatori, la dice lunga. Questo “ne parleremo domani” fa venire in mente la vecchia considerazione di De Fillippo “a da passà a nuttata”. E per quanto riguarda la mattina del domani vedremo anche se i primi fumi di guerra sono stati lanciati subito dopo la maxi riunione di Villa Pamphili, anzi all’uscita della stessa, quando qualche autorevole esponente della sinistra estrema ha minacciato: “Le pensioni non si toccano”, scandendo le sillabe per mostrare la volontà come un imperativo.
Si motiva poi continuamente il contenuto, cioè il cosa, della manovra col ricorso al “clamoroso buco” di bilancio del governo precedente, agli sfondamenti di tutti i tetti provocati da Berlusconi. Noto che la questione dei disastri del governo precedente viene sempre richiamata dai governi successivi. E’ una legge dell’ex all’incontrario. Nel 2001 si ironizzava sul buco di bilancio del governo di centro sinistra, a tal punto che il senatore Giuliano Amato, ultimo presidente del governo della legislatura precedente, dichiarò ironicamente e allusivamente: “Il centrodestra ha l’ossessione del buco”. Adesso naturalmente i poli si sono scambiate le parti in commedia, ma le accuse e le contraccuse sono le medesime. E’certamente vero che i cinque anni precedenti, che sono stati tra i più difficili per la nostra economia, alle prese, come quelle degli altri Paesi europei, con gli effetti dell’11 settembre e della guerra in Iraq, che appesantivano le già difficili condizioni create dalla nostra entrata nell’euro e dall’affacciarsi nel mondo occidentale del mercato asiatico e delle sue merci, non hanno certo consentito all’Italia di godere di quello sviluppo che era stato ipotizzato. Credo peraltro che sarebbe successa la stessa cosa a fronte di un governo di opposto colore, giacchè le dinamiche economiche e finanziarie, se siamo onesti lo dobbiamo riconoscere, sono solo in scarsa misura determinate dalla politica. E’ altresì vero che il relativo sviluppo del quinquennio 1996-2001 era stato possibile più per l’abbassamento dei tassi che non per dinamiche interne. E che l’Italia è stata sotto lo sviluppo europeo sia nel quinquennio del centro sinistra sia in quello del centro destra, essendo la crisi italiana più complicata, anche per la sua particolare economia, per il suo peculiare tessuto di piccole imprese, ancora alla ricerca di tecnologie innovative, per essere realmente competitive sul mercato. Oggi dovremmo evitare di raccontare bugie e lo dico a tutti. Il nuovo imprevisto gettito fiscale, che avrebbe certo consentito di varare una finanziaria più leggera, è il risultato di una nuova congiuntura economica più positiva rispetto al passato, ma secondo gli osservatori più avveduti, anche di quei famigerati condoni che hanno consentito di evitare ai condonati di dichiarare meno di quel che essi stessi hanno richiesto di condonare. Certo è giusta l’obiezione, a fronte di questa finanziaria, che si propone di rientrare pienamente nei parametri di Maastricht, obiezione che recita: “e voi cosa proponete di diverso?”. Sono sempre stato sensibile a tale richiesta, anche quando coloro che oggi la propongono ieri la negavano. Intanto consiglierei vivamente di non dimenticare i consigli di Almunia sul reale gettito delle lotta all’evasione che a me sembra come “il sol dell’avvenire” d’ottocentesca memoria: tutti ne parlano, ma nessuno lo conosce. E in effetti conteggiare i risultati di una lotta tutta da fare pare piuttosto difficile e dunque discutibile.
Per quanto riguarda noi devo dire che ci stavamo lavorando seriamente ad alcune proposte di modifica che avrebbero probabilmente consentito di affrontare la legge finanziaria in modo ben diverso. Come è forse noto, anche chi vi parla ha accolto di buon grado l’invito dell’on. Capezzone, presidente della Commissione attività produttive della Camera dei deputati, di costruire un tavolo definito dei volonterosi, composto da personalità sia del centro sinistra sia del centro destra, teso ad arrivare ad una lettura della Finanziaria che mettesse in evidenza alcune possibilità di cambiamento. Non ci è stato possibile procedere, nonostante la disponibilità di alcuni rappresentanti della maggioranza, come Nicola Rossi, Pisicchio e Lusetti e il tavolo è stato sciolto d’imperio dal governo. Chi aveva la volontà di procedere costruttivamente è stato anzi accusato di complotto. Il segretario di Rifondazione comunista Giordano ha esplicitamente minacciato: “Se esiste il tavolo dei volonterosi non esiste più l’Unione”. E dopo il maxi vertice di Villa Pamphili il presidente del Consiglio ha annunciato l’assoluta autosufficienza del suo governo, “Governeremo per cinque anni”, egli ha proclamato”. Auguri. Ma allora perché proporre il dialogo alle minoranze e in particolare a quelle forze politiche che si sono dimostrare disponibili a praticarlo? Non ci resta davvero che dichiarare: “Tanti auguri”. Cinque anni sono lunghi e le distanze al Senato sono così corte…
La parola è subito ripassata dal Parlamento alle segreterie dei partiti di maggioranza, i quali, più che un tavolo dei volonterosi, hanno costituito le loro tavole della legge, facendo quadrato attorno al governo, ma indicando a Prodi di ritrovare lo spirito, evidentemente smarrito, del 96 e di aprire la cosiddetta “fase due”. Può essere che Prodi abbia inteso che se nel 96 c’era uno spirito era quello di programmare la sua sostituzione e che questo significava in realtà la fase due. Così il presidente del Consiglio ha reagito male. Al vertice dei vertici si preferito far finta di niente, e trincerarsi dietro la massima “Aprè Prodi le deluge”. Cioè le elezioni.
Eppuro noi volevamo indicare vie che non comportavano certo il sacrificio di Romano Prodi e neppure quello del suo governo, ma solo la elaborazione di alcuni punti programmatici comuni e la composizione di un clima migliore tra maggioranza e minoranza. Al Parlamento è stata clamorosamente tolta parola e anche la Commissione bilancio ha solo dovuto prendere atto, senza i tempi tecnici per un adeguato approfondimento, dei continui emendamenti del governo.
Così questa Finanziaria è divenuta un cantiere aperto solo alla maggioranza e il confronto parlamentare si è immiserito in un dibattito tutto interno al governo. Questa mi sembra la sola evidente novità politica emersa. D’altronde, la particolare eterogeneità della maggioranza non poteva forse portare ad altro risultato. Una Finanziaria come punto di equilibrio tra le diverse e contraddittorie componenti dell’Unione. E se qualcuno avanza l’ipotesi di dialogare con le opposizioni la maggioranza si rompe. Il massimo del dialogo è quello che si sviluppa nei confini dell’Unione. Oltre: “hic sunt leones”. E questo, sul come procedere prima richiamato, è già una risposta. Anzi è un politica.
Noi, vi avremmo voluto ad esempio dire, se ce ne fosse stata data la possibilità, se il dialogo avesse proceduto, coi volonterosi e volonterosamente, coi gruppi parlamentari, in commissione, che se il Depf dichiarava che bisognava intervenire in quattro settori (la previdenza, la pubblica amministrazione, la sanità e gli enti locali), occorreva procedere con riforme coraggiose e ispirate alla duplice direttrice del rigore e dell’equità. Invece non è stato così e il Depf, come del resto denunciato da autorevoli esponenti della maggioranza, è stato clamorosamente disatteso. Può essere che il Depf sia un documento inutile, ma se esso prevede uno sviluppo italiano tra l’1.3 e l’1,7 nei prossimi cinque anni, come fa poi il presidente del Consiglio a prevedere, com’ è accaduto recentemente, uno sviluppo italiano del 3%? Con quali manovre arriva a questa previsione e come il contesto internazionale e nazionale è cambiato per giustificare tale nuova attesa? Altro mistero.
Avremmo voluto dirvi, signori del governo, noi parlamentari di buona volontà, che se il problema è lo sviluppo allora andavano dati forti incentivi alle imprese italiane e che il Tfr loro tolto non era un buon viatico. Sottraendolo poi solo alle grandi imprese e non a quelle inferiori ai 50 dipendenti si incentivano le piccole imprese a rimanere tali e le grandi a diventare un po’ più piccole, ponendo anche evidenti problemi all’occupazione. Noi avremmo preferito la cessione di larga parte del patrimonio dello Stato che abbiamo quantificato in tre milioni di metri quadri, per investire le risorse in una legge, come abbiamo proposto con un emendamento del nostro Gruppo, capace di sovvenzionare la ricerca, le nuove tecnologie, lo sviluppo delle imprese italiane e nel contempo per risanare le periferie urbane delle grandi città, Napoli compresa, alle prese con una gravissima emergenza.
Avremmo anche voluto dirvi che se due punti di cuneo fiscale dovevano essere riconsegnati ai lavoratori, bè, allora, che fossero i lavoratori delle imprese pubbliche e private a conseguirne un sia pur piccolo beneficio. Così come è impostato, lo abbiamo già rilevato, il beneficio del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti non esiste praticamente più. E avremmo voluto anche osservare che quando si parla di benefici fiscali, non bisogna tenere presente solo l’Irpef, ma il costo complessivo della vita. Al di là delle affermazioni del governatore della Banca d’Italia Draghi sugli svantaggi che la Finanziaria produce anche per un operaio senza figli che dichiari 28 mila euro l’anno, resta il rincaro del bollo, delle luce, del telefono, della benzina, dell’Ici se i comuni vorranno diminuire i tagli governativi, le tasse di scopo e di soggiorno e tutti i balzelli che sono stati introdotti o le imposte che sono state aumentate, compresa quelle delle insegne luminose dei negozi, e fare un bilancio complessivo del costo della vita, anche per un lavoratore con basso reddito che può recuperare qualcosa dalla rimodulazione dell’Irpef. E chiedersi anche se così noi incentiviamo i consumi e gli investimenti. E un’ultima osservazione avremmo voluto rivolgervi, signori del governo autosufficiente: se ritenete davvero che sia possibile contestualmente affrontare una lotta sacrosanta alla evasione fiscale e aumentare le tasse. Mi ricordo un vecchio colloquio con Bettino Craxi sull’argomento. Il vecchio leader socialista mi confidò alla fine degli anni Ottanta quando il problema era di stretta attualità e si introdussero anche i ticket sanitari da parte del governo che aveva in Giuliano Amato un’autorevole ministro del tesoro: “Il problema italiano non è aumentare le tasse e chi già le paga, l’Italia ha una delle percentuali più alte di prelievo fiscale, anzi la più alta, il problema è far pagare le tasse a chi non le paga”. Voi volete invece raggiungere il secondo giusto obiettivo utilizzando contestualmente il primo strumento, che è quello sbagliato. E non vi accorgete che più delle manette, anche in passato si è sperimentata la tecnica della paura, e una legge venne proprio intitolata “Manette agli evasori”, ma non produsse nulla di buono, più delle manette, conti l’interesse. E vorrei capire, ma sarà difficile spiegarlo, come sia possibile conciliare, nel lavoro autonomo, il rientro dall’evasione, quando i piccoli benefici vengono introdotti proprio a coloro che dichiarano di meno. Il paradosso così è evidente. Un commerciante che dichiara tutto quello che guadagna, facciamo conto 100mila euro, viene penalizzato, e un commerciante che dichiara un terzo di quel che guadagna, diciamo 30 mila euro, viene favorito. Ma scusate, non è contraddittoria con la lotta all’evasione una politica siffatta?
Bisognerà pure, come in America, introdurre dunque un minimo di conflitto degli interessi, in modo tale che il consumatore sia indotto a pretendere ricevute fiscali da parte di colui che vende il prodotto, perché può scaricarle almeno in piccola percentuale. Perché non si comincia da qui anche in Italia?
Signor presidente,
sono rimasto piuttosto sconcertato, da parlamentare non disattento alla storia e alla filosofia, anche per motivi diciamo così professionali, del dibattito culturale attorno a questa Finanziaria. E non tanto dallo sventurato manifesto, titolato “Che i ricchi piangano” (che la ricchezza possa produrre depressione è anche possibile, ma basterebbe rileggersi la chiosa all’intestazione del giornale “La Giustizia” di Camillo Prampolini del 1887 che testualmente dichiarava “Noi non pratichiamo l’odio alla classe dei ricchi ma l’esigenza di una riforma sociale”, per rendersi conto di quanti anni una parte di questa sinistra italiana sia scivolata indietro). Sono rimasto sconcertato dall’impostazione che da parte di qualche settore della maggioranza si è voluta dare dell’equità. Vorrei precisare a costoro che la sinistra italiana rischia di andare indietro di più d’un secolo introducendo una divisione, come quella tra buoni e cattivi, tra lavoro dipendente e lavoro autonomo. Questo molto più a parole che a fatti, naturalmente, perchè nei fatti la Finanziaria non offre particolari vantaggi al lavoro dipendente. Già i riformisti socialisti consideravano i ceti intermedi e i piccoli proprietari delle campagne come una risorsa e perfino Palmiro Togliatti nel lontanissimo 1946 giudicava, nel suo famoso discorso sui ceti medi e l’Emilia rossa, i ceti produttivi autonomi come referenti insostituibili per una grande alleanza del lavoro.
Oggi che tutto è così prepotentemente cambiato sono autorevoli esponenti della sinistra riformista italiana, quelli più acuti e sensibili, a cogliere il senso della novità, che protestano perché il governo italiano non riesce e con lui i partiti della sua maggioranza, a capire le profonde trasformazioni del lavoro in vaste aree del Nord Italia. E il disagio di Cacciari e di Pennati e anche quello di Cofferati, che non può che valutare la base dell’ex Pci e oggi Ds della sua Emilia-Romagna come quella più interclassista d’Italia e quella dei tanti riformisti di sinistra, cooperatori, artigiani, commercianti, piccoli imprenditori, che oggi si voltano dall’altra parte. Ma non lo sentite voi oggi questo scollamento?
Il lavoro autonomo è una risorsa molto forte dell’economia italiana e la piccola impresa è l’architrave su cui si regge. La stragrande maggioranza delle imprese italiane sono piccole e medie e hanno bisogno di investimenti per le nuove tecnologie e per la ricerca. Hanno bisogno di consorziarsi e di svilupparsi. Come spiegarsi che ancora vi siano partiti della maggioranza che non abbiano compreso che le profezie di Marx sul superamento del capitalismo per ragioni intrinseche e la progressiva proletarizzazione della società sono due previsioni clamorosamente fallite
Ad essere superato è stato il comunismo, e anziché essere eliminati i ceti intermedi sono divenuti la maggioranza della popolazione.
E che dire della concezione del merito che risulta presente nella maggioranza. Il merito va premiato, signori, non punito e compresso, non criminalizzato. Il merito, noi socialisti italiani da venticinque anni lo riteniamo al pari del bisogno e non meno, un corno del problema del progresso equo della società. Siamo per le liberalizzazioni, quelle vere, e per una grande alleanza delle generazioni che assicuri un futuro ai nostri giovani, senza l’egoismo, il corporativismo, il conservatorismo che ancora imperano sovrani. E siamo sì contro la precarietà, ma anche per la giusta flessibilità introdotta dalla legge Biagi, un riformista, un socialista, un martire delle violenza brigatista, che dobbiamo onorare e che non possiamo sostituire con il numero trenta, quello della sua legge.
Sig. presidente,
non abbiamo detto noi: “L’unico emendamento alla finanziaria è quello relativo alla sua soppressione”. La frase è di un autorevole esponente della maggioranza, e non un esponente qualsiasi, l’on, Ciriaco De Mita, ed è stata riportata dal Corriere della sera del 26 ottobre. L’opposizione di De Mita è assai superiore a quella dei volonterosi, che la finanziaria la volevano solo emendare, dunque.
Bisognerebbe avere il coraggio, tutti, della verità. Non sono certo qui ad incensare il governo Berlusconi, a non ammettere che, pur in una situazione di maggiore difficoltà, il tasso di crescita è stato vicino allo zero, che l’avanzo primario è stato sacrificato, che l’indebitamento è cresciuto. Accordiamogli almeno il merito del nuovo massiccio gettito fiscale dell’anno in corso che nessun governo neonato può certo rivendicare. E riconosciamo anche se nel passato l’Italia non è andata in recessione, lo si deve in gran parte alla realizzazione delle opere pubbliche, che hanno sviluppato una parte cospicua di Pil. Oggi come siamo messi, on Di Pietro? Anche qui c’è l’ossessione del buco? Ma, sa a proposito di buchi, pensi a farne uno al più presto tra l’Italia e la Francia che altrimenti perdiamo il corridoio 5 e il Nord Italia verrà penalizzato come mai accaduto in passato. Decidetevi sulla Tav. Avete buttato a mare il ponte sullo Stretto, state seppellendo sotto le montagne del Val di Susa la nuova ferrovia e l’intero corridoio 5 che ormai sta prendendo altre vie al nord dell’Italia. Ne siete consapevoli? Spero di sì, anche se il problema del vostro stare insieme è più forte delle cose che dovete fare. Voi dovete sempre mediare e non avete spesso il tempo di decidere.
Per questo vivete un paradosso e dovete raccontare anche voi una grande bugia. Il paradosso è quello di dovere governare insieme pensandola diversamente, sulla politica internazionale come sulla Tav, sulla riforma delle pensioni, come sul Tfr. La grande bugia è che con questa finanziaria i lavoratori staranno meglio. Può darsi che ogni finanziaria che si rispetti debba esser osteggiata, ma questa, secondo tutti gli istituti di ricerca, è andata oltre misura. Si dice che è colpa della comunicazione. Non vorrei che alla fine il vero colpevole venisse individuato in Sircana. Credo che i lavoratori di poter star meglio non abbiano per nulla avuto la percezione. E osservando i sondaggi e le elezioni in Molise (anche qui le parti si sono capovolte. Non era Berlusconi a sostenere che si trattava solo di elezioni parziali?), osservando sondaggi e i test elettorali, qualche timore dev’esservi sopraggiunto. E nella grande bugia vorrei anche aggiungere quella relativa al futuro, che sarà certamente migliore e che ciò che non avete fatto oggi, perchè siete divisi, lo farete domani unitariamente. Penso alle riforme, che mancano e che sono state promesse anche con il Depf. La filosofia è quella del leopardiano venditore di Almanacchi. Può darsi che l’anno che verrà ci riservi novità positive. Ma affidare il futuro dell’Italia a una speranza non induce ad avere fiducia.