Audizione del ministro delle comunicazioni, Paolo Gentiloni
Audizione del ministro delle comunicazioni, Paolo Gentiloni Silveri, sulle linee programmatiche del suo dicastero, per gli aspetti di competenza della Commissione
19-7-2006
Innanzitutto, al di là delle proteste, che l’onorevole Bono – anche per iscritto – ci consegna, vorrei segnalare, obiettivamente, una difficoltà nella quale soprattutto i piccoli gruppi si trovano ad operare. Ieri non ho potuto partecipare ai lavori della Commissione, perché impegnato nel dibattito in Aula sul delicato tema della politica internazionale. Noi siamo un piccolo gruppo (siamo sei, ma praticamente ridotti a cinque, a causa di una grave malattia che ha colpito uno dei componenti del nostro gruppo) e dunque dobbiamo coprire tutti gli argomenti dibattuti in Aula con una mole di impegni notevole, e, quando ciò diventa incompatibile con la presenza nelle Commissioni, capita che dobbiamo saltare i lavori della Commissione.
La mancata partecipazione di ieri mi ha colpito e addolorato, ma non avevo modo di evitarla. Credo, signor presidente, che, quando in Assemblea si svolgono discussioni così importanti, come il tema della politica estera, piuttosto che la finanziaria, o il DPEF, o comunque si affrontano gli argomenti di maggior rilievo che vedono i gruppi particolarmente impegnati, sarebbe opportuno sollecitare preventivamente un confronto dei capigruppo per discutere dell’opportunità di riunire ugualmente la Commissione. Questo al fine di garantire la possibilità di partecipare anche a coloro che sono impegnati nel dibattito in Aula dove non possono intervenire e poi scappare.
Vengo alla discussione sulla relazione del ministro Gentiloni Silveri, una relazione completa, dettagliata, apprezzabile, così come apprezzabile è anche la documentazione fornitaci dalla Commissione. Meno apprezzabile, invece, è la mancanza di una traduzione della seconda parte; quindi abbiamo una documentazione in francese, in inglese, in tedesco e in spagnolo, che crea difficoltà a chi non è multilingue. La lettura di questo materiale mi ha suscitato una considerazione, che mi pare obiettiva dal punto di vista storico, e cioè che le forze politiche in Italia sono giunte molto in ritardo a comprendere il fenomeno della libertà dell’informazione radiofonica e televisiva.
Ricordo che alla metà degli anni settanta, quando nel nostro Paese esplose il fenomeno delle radio private e, poi, alla fine degli anni settanta-primi anni ottanta, quando si verificò quello delle televisioni private locali, le forze politiche erano attestate – almeno quelle di sinistra come il mio ex partito, il partito socialista italiano – su una posizione assolutamente arretrata, di difesa del monopolio statale della televisione e della radio. Allo stesso modo anche le istituzioni giunsero in forte ritardo a comprendere la necessità di una normativa che regolamentasse questo fenomeno diffuso delle radio e delle televisioni, che, per anni, si sono scontrate con la mancanza di una legislazione che le regolamentasse.
Nella relazione del ministro Gentiloni Silveri ho apprezzato l’apertura al contesto internazionale, che mi pare un fatto obiettivo. Le nostre analisi, oggi, vanno inserite nell’ambito di un processo di riorganizzazione, che interessa la società dell’informazione a livello internazionale, prevista dall’Agenda di Lisbona (come è stato ricordato) e che trova nel mercato dell’audiovisivo il suo traino fondamentale. Ciò significa che tutti i paesi sono competitori e che l’Europa è in competizione, oggi, con gli Stati Uniti e con il Giappone, che con le loro caratteristiche, sia tecnologiche che produttive, sono fortemente presenti sul mercato internazionale. Nostro compito è, dunque, inserire il sistema Italia in questo contesto.
Ai fini delle soluzioni, che il ministro propone, dobbiamo, dunque, tenere presenti due livelli di interazione, ma anche di contraddizione. Il primo, il più forte, è quello rappresentato dal sistema Italia nel rapporto con il contesto internazionale. Il secondo riguarda, invece, la riorganizzazione all’interno del sistema Italia. Bisogna stare attenti che non prevalga una logica da cortile, perché, mentre i generali romani combattono per avere insegne più appariscenti e luminose, Annibale è alle porte!
Lei, signor ministro, ha parlato di limitazione delle posizioni dominanti. Naturalmente, si tratta di definire cosa significhi «dominanti» e in rapporto a che cosa. Il termine, infatti, risulta ambiguo, se non precisa qual é il mercato di riferimento. Se il mercato di riferimento è quello italiano, allora RAI e Mediaset sono competitor dominanti. Se, invece, il contesto è il mercato europeo, o addirittura quello internazionale, questi due soggetti economici sono poca cosa, a fronte delle grandi multinazionali dell’informazione e dell’intrattenimento.
Insomma, il conflitto interno in Italia – questo mi sembra il punto fondamentale – non deve degenerare in un indebolimento del sistema paese a fronte della concorrenza internazionale. Sottolineo, dunque, questo aspetto, che ovviamente riguarda tutti, in quanto interessati a fare in modo che il sistema dell’informazione italiana regga nel confronto con la concorrenza europea ed internazionale, evitando che il conflitto del duopolio dominante in Italia generi conseguenze negative per il sistema Italia nel rapporto con il sistema europeo ed internazionale.
Il terreno dell’informazione e più in generale dell’audiovisivo è indubbiamente un terreno di confronto e di polemica politica. Sempre nell’ambito dei riferimenti storici, lei ha citato la legge Mammì del 1990 e la legge Gasparri del 2004. Naturalmente le faccio tanti auguri come ministro delle comunicazioni, però pensi che la legge Mammì nel 1990 -allora ero già parlamentare – determinò quasi una crisi di Governo, con l’uscita della sinistra democristiana dal Governo Andreotti. La legge Gasparri, non so se questa sia stata la causa principale, ma contribuì all’uscita di Gasparri dal Governo Berlusconi. Entrambe le leggi, che hanno toccato un nervo importante, anche dal punto di vista politico, che è quello dell’informazione e della comunicazione nel nostro paese, hanno determinato «scombussolamenti» di carattere politico nelle compagini di Governo. Spero che a lei non accada quello che è accaduto a Gasparri, e mi auguro per voi – giacché non faccio parte della maggioranza – che non capiti al vostro Governo quello che è capitato al Governo Andreotti dopo l’approvazione della legge Mammì.
Come dicevo, il terreno dell’informazione e in generale dell’audiovisivo è indubbiamente un terreno di confronto e di polemica politica, ma deve soprattutto divenire una trincea in cui si affermano i grandi valori della coesione nazionale. RAI e Mediaset devono trovare sinergie per garantirsi una caratura di carattere internazionale, che permetta loro di difendersi dall’offensiva di grandi gruppi (vedi Murdoch ed altri), ai quali altrimenti, sia pure inconsapevolmente, spalancheremo le porte che sono peraltro già aperte.
Alla luce di queste considerazioni di carattere generale, metodologico e politico, non ci convince la divisione manichea che lei opera tra l’analogico e il digitale. Lei pone un problema di specializzazione di contenuti, risolvendo il problema del rapporto tra l’analogico e il digitale in una sorta di specializzazione. È evidente che esista un problema di specializzazione, ma bisogna discutere meglio delle forme di integrazione, anche per offrire un mercato ottimale ai produttori di contenuto.
Non ci convince neppure – l’ha sottolineato prima l’onorevole Bono – questo slittamento del digitale dal 2008 al 2010-2012. Questo discorso di diversificare nei contenuti l’analogico e il digitale comporta, infatti, una segmentazione del mercato e una riduzione delle possibilità dell’offerta. Ai produttori di contenuto dobbiamo, invece, garantire un mercato il più ampio possibile, a prescindere dallo strumento di trasmissione. La stessa ripartizione delle risorse pubblicitarie, che rappresenta il tessuto connettivo della produzione di contenuti, deve tener conto di questo aspetto.
Non siamo eccessivamente innamorati, signor presidente e signor ministro, del cosiddetto SIC. Siamo invece propensi a valutare diverse ipotesi di ripartizione delle risorse, ma in un’ottica rivolta a potenziare, non ad indebolire, il sistema Italia.
La RAI va certamente riorganizzata, senza depotenziarla, uscendo da una visione provinciale tutta razionale e, dunque, conflittuale, in larga parte anche lottizzata tra le diverse forze politiche. Occorre una vera apertura al mercato ed un potenziamento dell’industria nazionale, e questo è un orientamento comune agli altri paesi europei e mondiali.
Lei ha parlato di dati quantitativi Auditel – cambio rapidamente argomento, ma solo per essere sintetico – che dovrebbero essere sostituiti da dati qualitativi. È evidente che nella rilevazione statistica è molto difficile passare dalla quantità alla qualità, anche perché un’indagine sulla qualità, se l’avesse condotta Giuseppe Verdi alla prima de La Traviata al teatro La Fenice di Venezia nel 1851 – sono stato presidente di teatri, mi occupo di lirica – sarebbe stata un’indagine disastrosa, dalla quale avrebbe dedotto che si trattava di un prodotto di scarsa qualità, da cestinare (per usare un termine da computer). La Traviata oggi è una delle opere più rappresentate nei teatri di tutto il mondo, a prescindere dal giudizio di qualità immediatamente espresso da quel pubblico, in quell’occasione. Se quell’opera nel 1851 fosse stata trasmessa in un’ipotetica televisione e si fosse fatta un’inchiesta di mercato sulla qualità di quel prodotto, sarebbe emerso certamente un giudizio analogo a quello espresso dal pubblico de La Fenice di Venezia. Quindi, alla luce di queste considerazioni, le inchieste sulla qualità mi lasciano piuttosto perplesso.
La qualità deve essere valutata nel tempo, non sul momento. Una trasmissione può essere giudicata di qualità soltanto dopo un certo lasso di tempo. Questo, naturalmente, implica un giudizio che può essere anche quantitativo, ma soprattutto qualitativo. Il film di Fellini Otto e mezzo, per esempio, è stato certamente meno visto in Italia dei film di Boldi e di De Sica. Questo non significa che il successo di una trasmissione sul piano della qualità possa essere sempre rapportato al numero di persone che la seguono e la apprezzano. Bisogna valutare anche l’impatto della qualità nel tempo, quello che un prodotto riesce a dimostrare sul piano del cambiamento, perché introduce delle novità che segnano una svolta nella produzione culturale. Questo non risulta quasi mai valutabile attraverso un’indagine quantitativa, che interessa un limitato numero di persone. Ma nemmeno può emergere da un’indagine immediatamente qualitativa.
Naturalmente, non si tratta di fare delle trasmissioni o delle produzioni di élite. Anche qui, però, la distinzione tra programmi culturali e programmi di intrattenimento mi sembra abbastanza discutibile, nel senso che ormai nella televisione non esiste più la divisione di generi come c’era un tempo, per cui si assisteva alla trasmissione sportiva, a quella di intrattenimento musicale, a quella politica, a quella culturale. Ormai, i talk-show sono un po’ tutto questo, fondendo musica, politica, cultura e a volte anche sport. Quindi, ci sono dei contenitori polivalenti; al limite, lo spettatore può scegliere di cambiare con il telecomando, a seconda dei propri gusti.
Pensate a cosa era divenuto nel tempo il salotto di Maurizio Costanzo, nato come una trasmissione unicamente di intrattenimento e di disimpegno e poi diventato trasmissione politica e musicale, avvalendosi di una serie di ingredienti per renderla completa e articolata in quasi tutti i generi che incontrano l’apprezzamento del pubblico.
Per quanto riguarda il discorso del pluralismo all’interno della gestione dei mezzi di informazione, vorrei solo rilevare come la riforma oggi renda praticamente impossibile una prevaricazione per quanto riguarda la nomina del presidente della RAI, attraverso la Commissione di vigilanza. Questo, però, rende assai facile – come è stato evidenziato e, in parte, praticato – una sorta di lottizzazione a due nella gestione della RAI TV per ciò che attiene ai massimi vertici (presidente e direttore). Ciò potrebbe determinare nel tempo una situazione simile a quella automatica, che ci trovammo davanti in Parlamento, in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica nel 1992, quando venne scelto, quasi all’unanimità, Scalfaro, perché questi era già stato eletto quasi all’unanimità Presidente della Camera. Potrebbe accadere, quindi, che il presidente della Commissione di vigilanza diventi il primo pretendente logico, per la qualità della sua nomina, alla presidenza della RAI. Come appunto è avvenuto.
Questo si è verificato spesso all’interno delle fondazioni e delle SpA nel sistema del credito, in cui il presidente della fondazione, dal momento che nomina se stesso, diventa automaticamente presidente della SpA. Ciò costituisce certamente un limite. Capisco che si tratta di un’innovazione importante per garantire pluralismo e non prevaricazione di una parte sull’altra, ma alla fine il rischio obiettivo mi pare sia proprio questo.
Termino il mio intervento facendo una raccomandazione. Quando si parla di pluralismo, si richiamano rapporti a due, così come due sono i poli e come due rischiano di diventare i grandi partiti nel tempo. Esiste, tuttavia, la necessità di tutelare tutte le voci, tutte le forze politiche, tutte le tendenze politiche. Noi, come piccolo partito, come piccola comunità, Nuovo PSI, abbiamo denunciato al presidente della RAI TV e al garante per le comunicazioni il silenzio assoluto in cui è stata costretta una forza come la nostra, che, secondo le rilevazioni dei mesi di maggio e di giugno, non ha avuto alcuna citazione in nessun telegiornale RAI e in nessun telegiornale Mediaset, mentre formazioni politiche anche più piccole della nostra hanno ricevuto ben altro trattamento.
Si tratta di una prevaricazione, a nostro giudizio assolutamente inaccettabile, contro la quale intendiamo combattere una battaglia di libertà e di pluralismo, nel modo più rigoroso e deciso possibile.