Audizione del ministro per i Beni e le attività culturali, Francesco Rutelli
Audizione del ministro per i Beni e le attività culturali, Francesco Rutelli, sulle linee programmatiche del suo dicastero
15-6-2006
Innanzitutto formulo al ministro Rutelli gli auguri per il duplice incarico affidatogli, quello di Vicepresidente del Consiglio e quello di ministro per i Beni e le attività culturali con delega per il turismo. Vicepresidente del Consiglio di un Governo che oggi, leggendo i giornali, qualche autorevole componente della sua stessa maggioranza pronostica addirittura che non arriverà al panettone. Vi auguro di arrivare anche all’uovo di Pasqua e oltre, ma sarebbe importante che in una materia come questa lei, nella sua seconda funzione di ministro per i Beni e le attività culturali con delega al turismo, venisse spesso in questa sede per fornire idee e contributi e per ascoltare i suggerimenti dei membri della Commissione cultura della Camera dei deputati. Conoscendo il suo rapporto con il Parlamento, non ho dubbi che ciò avverrà. Parto da una semplice considerazione, cioè dalla provenienza dei ministri del centrosinistra nel settore dei beni culturali: Melandri e Veltroni sono di provenienza romana, e inoltre si era sentito parlare di Bettini e di Borgna come possibili candidati. La prima raccomandazione è di non avere una visione «romanocentrica» della questione dei beni culturali, non perché Roma sia un fatto secondario: Roma, per i suoi monumenti, per la sua storia e per il fatto di essere la capitale d’Italia, deve certamente avere un ruolo fondamentale in questa materia, ma non può essere oggetto di attenzione esclusivo. Occorre una visione nazionale del problema della cultura in Italia.
La seconda premessa alle considerazioni che svolgerò parte da un dato di cronaca. Quando sono entrato in Parlamento, nel lontano 1987, esisteva il Ministero del turismo e dello spettacolo. Ministro era l’ex presidente della Federcalcio, Franco Carraro, e già allora il gruppo cui appartenevo, il gruppo socialista, propose (lei lo ricorderà) in dibattiti ed iniziative pubbliche la creazione di un Ministero della cultura. Si guardava allora alla Francia come ad un modello e ci si chiedeva come mai, in un Paese in cui la cultura era predominante (si parlava di «giacimenti culturali» per indicare la ricchezza dei beni culturali del territorio italiano, preziosi come il petrolio), non vi fosse un Ministero della cultura. È quindi con grande piacere che ho registrato il passaggio dal Ministero dei beni culturali al Ministero per i beni e le attività culturali, che accorpa anche le attività riferite allo spettacolo ed alla cultura nel suo complesso.
Ho registrato, da ultimo, con piacere, il fatto che di questo Governo faccia parte un ministro che si occupa di sport. Anche in relazione alle ultime vicende del mondo del calcio (alla crisi ed allo scandalo che hanno interessato questo settore) e considerando che l’esecutivo ha sempre avuto, per legge, solo un potere di vigilanza sul CONI, ritengo che un Governo debba possedere gli strumenti per regolare il rapporto con l’autogoverno dello sport e del CONI e, quindi, considero un fatto positivo che vi sia un ministero specifico che si occupi di sport. È positivo far sentire la voce e la presenza del Governo anche in una materia in cui, come nel settore della magistratura, esiste una sorta di autogoverno, in questo caso da parte delle società sportive.
Non riesco invece a capire perché si sia voluto fare un passo indietro, reintroducendo nel suo Governo la delega al turismo, accorpata con i beni e le attività culturali. Ho sempre considerato il turismo un fatto economico e, come diceva giustamente prima il collega Adornato, infrastrutturale.
Certo, in Italia può essere un fatto anche culturale, ma non credo che oggi il turismo culturale sia il traino, il veicolo principale per l’espansione del turismo in Italia, anche se è indubbiamente in notevole incremento.
Lei è partito da una valutazione di carattere finanziario sul suo ministero ed ha registrato il venir meno di risorse pari – l’ho letto nell’approfondito studio che ha fornito la Commissione – al 15,5 per cento di taglio, con una riduzione di 340,7 milioni di euro, a cui rimanda l’ultima legge di bilancio. Per alcuni anni, oltre che parlamentare, sono stato anche presidente di teatri importanti dell’Emilia-Romagna ed ho assistito alla protesta nel mondo dei teatri, in particolare degli enti lirici ma non solo, per la riduzione delle risorse destinate al FUS. Noto come questo mondo, che conosco abbastanza bene, sia sempre particolarmente sensibile ogni volta che viene operato un taglio, anche minore di quello registrato quest’anno. La prima riduzione venne decisa nel 1988 dalla finanziaria di allora, era molto minore e provocò analoghi momenti di mobilitazione e di protesta. È giusto puntare ad investimenti privati, anche attraverso agevolazioni fiscali, come lei ha detto nella sua relazione, ed è giusto puntare a nuove possibilità di investimento che provengono da altri strumenti. Da questo punto di vista mi piace ricordare l’istituzione della società Arcus con la legge n. 291 del 2003, che stanzia il 3 per cento – poi elevato al 5 per cento – della spesa per le infrastrutture, introducendo così un concetto nuovo delle infrastrutture in Italia, che devono essere concepite non più come uno strumento di invasione dell’ambiente, ma addirittura come mezzo di tutela anche dei reperti archeologici che sottendono la costruzione di ponti, di ferrovie, di strade e come occasione di finanziamento della cultura nel suo complesso. In qualità di sottosegretario per le Infrastrutture mi sono occupato di questo argomento e della società Arcus ed ho notato i limiti dei finanziamenti, spesso a pioggia, che vengono erogati da tale società e come, di fatto, alla fine tutto si riduca ad una serie di finanziamenti su decreto dei due ministri che si dividono gli stanziamenti (50 per cento il Ministero pei beni e le attività culturali e 50 per cento il Ministero delle infrastrutture).
Ritengo che occorra invece pensare a progetti che consentano di risolvere questioni e situazioni, a progetti tesi non solo a manifestare intenzioni, ma anche a realizzare obiettivi importanti e fondamentali. Da questo punto di vista mi sento in dovere di chiedere – credo che tale richiesta possa essere condivisa da tutti i commissari – anche per ciò che riguarda i programmi di Arcus un coinvolgimento della Commissione cultura della Camera dei deputati, in merito ai finanziamenti che verranno erogati da questa società attraverso i decreti che saranno firmati da lei e dal ministro Di Pietro per le parti di rispettiva competenza. Il ministro Di Pietro ha sempre dichiarato di non voler entrare nella dimensione della cultura e che non avrebbe mai fatto il ministro dei Beni culturali, ma si ritrova assieme a lei a dover partecipare ad una società che eroga finanziamenti alla cultura. Conoscendo la propensione di Di Pietro a non occuparsi di cultura, penso che dovrà essere soprattutto lei ad occuparsi di Arcus.
FRANCESCO RUTELLI, Ministro per i beni e le attività culturali. Lo dobbiamo spingere a fare più opere possibili!
MAURO DEL BUE. Il paradosso, come lei sa e come ha detto, è che meno strade, ponti e ferrovie verranno realizzati, minore saranno le risorse a disposizione della società Arcus anche per la cultura. In qualche misura – lo spieghi bene anche a Pecoraro Scanio, a Rifondazione comunista e ai Comunisti italiani -, istituendo questa società che finanzia la cultura, si stabilisce una forte dipendenza delle iniziative culturali dalle strade e dalle ferrovie..
Da ultimo vorrei porre una questione che riguarda il mondo dei teatri. Ho parlato di tagli e di proteste nel mondo del teatro italiano, soprattutto di quello lirico. Lei sa che la «torta» del FUS, che si è ristretta nel corso degli ultimi anni, prevede una parte cospicua per il teatro musicale, in particolare per il settore degli enti lirici. In passato (non so se anche recentemente), si è prodotto un conflitto tra le diverse parti di questa «torta».
Il mondo del cinema, quello della prosa e quello della danza hanno sempre protestato contro il prevaricante ruolo del mondo della musica e, in particolare, degli enti lirici – meno dei teatri di tradizione -, per quanto riguarda il riparto delle somme previste dal FUS.
Conosco in parte le recenti modifiche apportate alla legge sulla musica (il FUS è l’architrave attorno al quale si è ruotato nel corso di questi anni). Tuttavia, il retaggio di tutte le modifiche legislative resta sempre la legge 14 agosto1967, n. 800, voluta dal ministro Corona, che istituì il FUS ed introdusse, per la prima volta in Italia, una normativa di finanziamento ai teatri, alle attività di prosa e di danza e al mondo del cinema. Credo che meno automatismi ci sono nell’ambito dei finanziamenti nel mondo del teatro meglio sia per il teatro italiano. Anche per quanto riguarda il cinema, è difficile stabilire quali siano i film “di interesse culturale”, come recita la normativa. Con riferimento al mondo del teatro, appare difficile entrare nel merito delle produzioni dei singoli teatri. Tuttavia, credo sia sbagliato mettere tutti sullo stesso piano e finanziare enti lirici che hanno una storia, dei programmi, delle valenze e dei significati internazionali e nazionali assolutamente dispari tra loro.
Ritengo altrettanto difficile sostenere che il mondo del teatro possa evitare di porsi il problema di limitare gli sperperi. Infatti, non é giusto pretendere finanziamenti cospicui da parte dello Stato senza porsi il problema di risparmiare. Basterebbe pensare ai teatri di tradizione che si permettono di spendere 300 mila euro a sera per produrre, per esempio, «Il flauto magico» (cito Mozart perché l’anno scorso, in diversi teatri italiani, sono state realizzate molte produzioni mozartiane), quando riescono a reperire neppure un terzo di quella cifra attraverso sponsorizzazioni, biglietteria o abbonamenti. Resta, quindi, un disavanzo fondamentale; nel caso dei teatri di tradizione è chiamato il singolo comune a porvi rimedio; nel caso dell’ente lirico, invece, sono chiamati il Governo e lo Stato.
Il problema è, dunque, quello di misurare la qualità delle produzioni teatrali e di commisurare il finanziamento alla qualità, alla capacità produttiva, alla capacità di circuitazione del prodotto (è inutile, infatti, realizzare «Il trovatore» in tre teatri distanti dieci chilometri l’uno dall’altro, quando lo stesso prodotto potrebbe circuitare in tutti e tre, evitando di far lievitare i costi).
Sono problemi di cui ci occupiamo da una vita, non certamente da oggi, e che in passato non abbiamo mai risolto. Si tratta di questioni che nei momenti di «vacche grasse» si possono lasciar stare, ma che nei momenti di «vacche magre», quando non ci sono finanziamenti a sufficienza, bisogna assolutamente porsi.
Concordiamo, quindi, sull’ingresso dei capitali privati attraverso defiscalizzazioni, sulla limitazione dei tagli (ove sia possibile), ma anche degli sperperi, nonché sull’esigenza che il mondo della cultura, in particolare del teatro, del cinema, della prosa e della danza, eviti di considerare intangibili le risorse che lo Stato mette a disposizione.